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“Mazzette” sull’A3,
condanne definitive

   L’«affare» dell’A3. Dodici anni dopo. Una storia d’infiltrazioni mafiose nei lavori di ammodernamento della maggiore arteria viaria del Mezzogiorno e di sentenze ribaltate. Una storia cominciata nel 2002 e conclusa ieri da un verdetto della Corte di Cassazione. I giudici di legittimità hanno annullato senza rinvio la condanna che era stata comminata ad Angelo Spiga, dirigente romano di una delle società interessate agli interventi di ristrutturazione. Confermate, invece, le condanne inflitte in prima e seconda istanza al boss Franco Presta (7 anni) catturato dalla polizia a Rende nell’aprile dello scorso anno dopo una lunga latitanza, ed a Mario Gatto (6 anni), “uomo di rispetto” della 'ndrangheta bruzia, già sotto processo per alcuni omicidi registrati nel Cosentino tra il 1999 e il 2001. Erano diventate definitive da tempo le condanne a nove anni di reclusione per Ettore Lanzino, presunto boss di Cosenza, e quelle inflitte agli imprenditori Dino Posteraro, 6 anni e due mesi di reclusione, e Franco Rovito, condannato a 5 anni e quattro mesi. In giudicato è passata pure l’assoluzione di Franco Abbruzzese, detto “dentuzzo”, ritenuto capo della criminalità nomade sibarita, originariamente indicato come uno  dei componenti del “direttorio” mafioso che pianificò la spartizione di subappalti e mazzette legati alla realizzazione delle opere. Il bilancio dell’inchiesta denominata “Tamburo”, dopo più di due lustri d'indagini e processi, è dunque di cinque imputati condannati. Ma ricostruiamo la vicenda giudiziaria. L’inchiesta sull’A3 partì ufficialmente il 18 novembre del 2002, con una raffica di arresti ordinati dal gip distrettuale di Catanzaro, Massimo Forciniti. L’operazione, “benedetta” dall’allora procuratore nazionale antimafia Pierluigi Vigna, venne battezzata “Tamburo” dagli “specialisti” della Dia. Agli arresti finirono 36 persone, tra imprenditori, presunti boss e funzionari dell’Anas. Il primo effetto della imponente retata, fu il pentimento di Francesco Amodio, “autista” e guardaspalle del presunto “contabile” delle consorterie criminali cosentine, Vincenzo Dedato. Poi saltarono il fosso il killer di Tarsia, Cosimo Alfonso Scaglione e il boss di Castrovillari, Antonio Di Dieco. A tre anni di distanza l’ipotesi d’accusa franò tuttavia sotto i colpi di una prima sentenza che non lasciò spazio a dubbie interpretazioni. I giudici di Cosenza cancellarono lo schema disegnato dalla Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro secondo cui imprenditori in odor di 'ndrangheta, padrini e funzionari pubblici avevano imbandito una ricca tavola per pasteggiare all'ombra dei lavori di ammodernamento dell'autostrada Salerno- Reggio Calabria. I magistrati assolsero tutti i dirigenti dell'Anas finiti a giudizio e i responsabili delle aziende impegnate negli interventi di ristrutturazione dell'A3. Vennero condannati solo cinque imputati ritenuti dal collegio giudicante come appartenenti alla “cupola” della 'ndrangheta bruzia che s'era spartita gli introiti derivanti dai subappalti e le "mazzette" imposte alle ditte impegnate nei lavori autostradali. E con loro due imprenditori (Rovito e Posteraro) e Angelo Spiga, indicato dalla pubblica accusa come l'intermediario tra le ditte e le cosche. Il verdetto venne tuttavia ridimensionato in secondo grado dalla Corte di appello di Catanzaro. E contro la sentenza promosse ricorso in Cassazione la procura generale ottenendo la celebrazione di un nuovo processo di seconda istanza. Processo celebrato nel capoluogo di regione e andato ritualmente a sentenza. Il verdetto è stato successivamente impugnato dal collegio difensivo davanti alla Corte di legittimità e, ieri, è arrivato l’ultimo, definitivo, pronunciamento. In favore degli imputati sono intervenuti in Cassazione gli avvocati Manna, Acciardi, Melandri, Pisani, Badolato, Esbardo e Locco.

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