Il male oscuro continua a mangiarsi quei corpi che non sono più corpi. E ruba quelle vite che non sono più vite. Esistenze malferme di disperati che, tra il 1978 e i primi anni Ottanta, furono costretti a sottoporsi a trattamenti sanitari obbligatori. Malati che vennero “avvelenati” nelle cliniche e negli ospedali dov’erano ricoverati e curati con quel sangue nero che entrò nei loro corpi e se li mangiò lentamente. Tante vite bruciate nell’olocausto degli emofiliaci ed emotrasfusi, trattati, a loro insaputa, con plasma infetto in ospedali e strutture sanitarie pubbliche. Tanti uomini e donne condannati a morte nel silenzio della vergogna di quegli anni. Il calvario di quella gente continua a riecheggiare nelle aule dei Tribunali italiani. Davanti ai giudici viene periodicamente ricostruito il dolore di quei martiri che si portano dentro quelle loro esistenze le stimmate del plasma infetto. L’ultima sentenza sulla vergogna internazionale l’ha scritta un giudice della Seconda Sezione del Tribunale di Roma, Giuseppe Cricenti, che ha condannato il Ministro della Salute dell’epoca ad un maxi-risarcimento per il contagio per patologia da epatite C e per la conseguente morte di una donna cosentina cinquantacinquenne. La donna, 28 anni fa, venne più volte trasfusa, durante un ricovero per sottoporsi a un intervento cardiochirurgico nell’Istituto di Chirurgia del Cuore e dei Grossi Vasi del Policlinico Umberto I di Roma. Col sangue, nelle sue vene, entrò anche quel morbo che ha finito per divorare la sua esistenza. Un male oscuro che impedì alla donna di vivere come avrebbe voluto vivere, dovendo limitare gli svaghi e contenere le relazioni sociali. Tutto questo perchè nessuno le aveva detto niente dei rischi che avrebbe corso facendosi iniettare quel plasma contenuto nelle sacche trasparenti. E nel 2000 la poveretta morì. Una tragedia che è stata riscritta nella sentenza che il Tribunale di Roma ha pronunciato, «in nome del Popolo italiano», su richiesta dell’avvocato Massimiliano Coppa, che da anni segue le inchieste sui danni provocati dal sangue infetto. Il legale, esperto in colpa medica, ha individuato nel suo voluminoso rapporto «la condotta omissiva e negligente del Ministero della Salute quale organo della Pubblica amministrazione destinato per legge a svolgere attività di controllo e vigilanza nell’interesse pubblico sull'utilizzo degli emoderivati e dei plasma derivati in volazione dei doveri istituzionali di sorveglianza, di direttive in materia di produzione e commercializzazione del sangue umano ed emoderivati sanciti dal legislatore». Elementi prelevati dalla tessitura di un’indagine che ha finito per estendere il nucleo originale dell’attività investigativa proiettandola su dimensioni planetarie. In questi anni sono stati aperti centinaia di fascicoli. Tanti processi e un maxiprocesso infinito che, nel tempo, è stato trasferita da Trento a Napoli per questioni di competenza territoriale. L’orrore è tramandato in migliaia di cartelle cliniche e nei “diari terapeutici” di pazienti dimenticati. Documenti agghiaccianti che testimonierebbero quella strage silenziosa che nessuno ha mai voluto chiamare strage. Nel pentolone scoperchiato dalla magistratura di Trento finirono alcuni dirigenti ospedalieri e l’ex direttore generale del Ministero della Sanità, Duilio Poggiolini. In quelle carte ci sono i racconti di tanti pazienti che come la sventurata cosentina hanno provato sulla loro pelle la violenza di quel morbo invisibile che, nel tempo, s’è impadronito dei loro corpi. Le questioni sollevate nell’articolato atto d’accusa vergato dall’avvocato Coppa sono state recepite dal Tribunale capitolino. Il giudice, ad esempio, ha individuato la responsabilità civile del Ministero per eventuali reati consumati dai suoi dipendenti. Un concetto, del resto, già consolidato nell’orientamento delle Sezioni Unite della Cassazione, e che individua come dannosa «la malattia, che viene percepita o che può essere percepita, come danno ingiusto conseguente al comportamento doloso o colposo di un terzo, usando l’oggettiva diligenza e tenuto conto delle diffusione delle conoscenze scientifiche». Una visione penalisticamente orientata della responsabilità civile non solo garantisce la tutela risarcitoria richiesta quanto individua la prescrizione secondo i tempi propri del reato di omicidio colposo con un termine massimo superiore ai cinque anni dell’illecito civile, considerato che nel caso di specie la sfortunata donna contrasse la patologia epatica nel 1985, ma dopo 15 anni morì a causa dell’aggravarsi della stessa. L’avvocato Massimiliano Coppa ha evidenziato come «il percorso di repertazione della qualità dei danni cagionati da questa vicenda immonda è ancora lungo, ma la risposta dell’Autorità Giudiziaria sparsa su tutto il territorio nazionale è puntuale e di spessore. Le sentenze emesse dai vari Tribunali italiani dovranno essere quella risposta senza riguardi e semi toni adatta alla proposta transattiva avanzata dal Ministero della Salute. Le regole del processo valgono per tutti, anche quando sono scomode. Le sentenze vanno rispettate ma soprattutto applicate in generale deroga di percorsi transattivi così come concepiti e proposti a chi ha avuto la sventura di imbattersi in questa tragedia umana senza precedenti».