Sono passati quindici anni da quella scia di morte tracciata col fuoco delle lupare imbracciate dagli assassini di mestiere della ’ndrangheta cosentina. Una storia che non si dimentica, che lo Stato non ha dimenticato ritornando padrone di questa terra per troppo tempo saccheggiata dal malaffare, piegata dal racket, inondata dalla droga, sprofondata nel terrore, schiacciata dalle regole dei boss e dei loro reggipanza. Su un capitolo importante di quella storia la Corte d’assise d’appello (presidente: Marchianò; a latere: Bravin) ha messo, ieri, il sigillo con la sentenza di condanna nei confronti di Mario Gatto e Giuseppe Perri per l’omicidio del vecchio padrino di Cosenza, Antonio Sena. Un processo tornato nei ruoli della magistratura di secondo grado di Catanzaro dopo che la Cassazione, accogliendo il ricorso della Procura generale, aveva annullato l’assoluzione pronunciata da un’altra sezione della Corte d’assise d’appello, due anni fa. I due imputati sono ripartiti dalla sentenza pronunciata tre anni fa dal gup, Patrizia Maiore, col rito abbreviato. Un dibattimento che si era chiuso con lo stesso verdetto di ieri: 30 anni di reclusione nei confronti di Gatto, che la Dda indica come uno dei presunti killer; e 20 anni nei confronti di Perri, considerato, invece, come l’uomo che avrebbe garantito la fuga a Gatto e all’altro assassino. I due imputati (che sono difesi dagli avvocati Paolo Pisani, Cesare Badolato, Giancarlo Pittelli, Marcello Manna e Luca Acciardi) speravano nell’assoluzione che non è arrivata. La fisionomia del delitto del vecchio padrino, era stata rischiarata dalle inchieste della Dda. Il procuratore capo Vincenzo Antonio Lombardo, l’aggiunto Vincenzo Luberto e il pm antimafia Pierpaolo Bruni, in particolare, scavando tra le macerie di quegli anni, avevano ripescato le trame di sangue che erano rimaste a lungo confinate nelle pieghe di ipotesi investigative. Dai rivoli di quelle inchieste emergeva quell’agguato che segnò lo spartiacque definitivo tra la vecchia mafia e quella nuova che divenne padrona su Cosenza. La mattina del 12 maggio del 2000, a Castrolibero, un commando assassinò Antonio Sena, una delle icone della storica malavita cittadina. Un uomo di rispetto con amicizie importanti nel Reggino. Sarebbe stato ucciso perchè le “coppole” emergenti temevano un suo rientro in grande stile nella gestione degli affari illeciti, al fianco d’un altro temuto boss, Francesco Bruni, alias “Bella-bella”, anche lui vittima di agguato, freddato dieci mesi prima davanti al carcere di via Popilia. Sena venne sorpreso a bordo della sua Rover, in contrada “Motta” di Castrolibero. Al volante c’era un amico e sul sedile posteriore, invece, il figlio del padrino. I tre stavano lasciando il parcheggio d’una concessionaria dove erano appena stati per valutare l’acquisto d’una motocicletta. All’improvviso sbucò dal nulla una Lancia Thema che tamponò la vettura in manovra. Dalla berlina uscirono i killer armati di pistola e col volto coperto da passamontagna. Quei due demoni scatenarono l’inferno. Sena fu travolto da una tempesta di piombo e non ebbe scampo. Il figlio e l’austista, invece, riuscirono a salvarsi.