La verità sullo stupro era già affiorata in quella gelida alba. Ed era affiorata dalla visione delle immagini dell’impianto interno di videosorveglianza del palazzo dove vive la studentessa fuori sede dell’Unical che aveva denunciato la violenza. Le telecamere avevano ripreso molto e, soprattutto, avevano inquadrato il volto di quel giovane, il presunto aggressore. Una faccia che un esperto carabiniere del Radiomobile della Compagnia di Rende riconobbe subito: «È il figlio di “U Tupinaro”». “U Tupinaro”, al secolo, è Gianfranco Bruni, 52enne boss della ’ndrangheta, condannato al carcere a vita, pena che sta scontando ad Oristano, in Sardegna. Suo figlio, invece, si chiama Gaspare, un giovanottone di 21 anni, ed è lui il sospettato. Ieri sera, il ragazzo, con un passato senza macchia, è stato arrestato per ordine del gip, Salvatore Carpino, su richiesta del capo dei pm di Cosenza, Dario Granieri, e del sostituto, Antonello Tridico. Sarebbe stato lui a violentare la venticinquenne dopo averla riaccompagnata a casa. La storia agghiacciante è confinata dentro le carte dell’inchiesta. Una trama sgorgata da una notte di baldoria in un locale di Roges. Intorno alle 7 del mattino, Anna (il nome naturalmente non è quello vero) decideva di lasciare la festa tra amici, cominciata il sabato sera, e di tornarsene a casa. Tra un cocktail e un altro, avevano tirato avanti fino all’alba. A quel punto lei sentiva di non essere più lucida, forse per aver esagerato con l’alcol. Gaspare Bruni era sempre lì, in quel locale. E quella sera aveva parlato a lungo con Anna, insieme a un amico. Lui, allora, le avrebbe offerto un passaggio, «andiamo, ti accompagno io. Tanto devo passare da lì...». Anna avrebbe accettato anche perchè era stanca e non vedeva l’ora appisolarsi. E, poi, quel giovane era sembrato così gentile e premuroso. I suoi occhi, però, sembravano penetrarle l’anima e anche il corpo. Arrivati davanti al portone condominiale, Anna salutava e si dirigeva verso l’interno. Bruni l’avrebbe seguita con una scusa: «Ti accompagno, non si sa mai». Una volta dentro l’atrio, l’indagato le avrebbe messo le mani addosso.
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