Non c’era lo spazio necessario ieri, nella convulsa mattinata del commissario dell’Asp – caratterizzata da una presunta tiritera di riunioni – per ascoltare le istanze o se si preferisce le preoccupazioni di una madre al cui figlio stanno per levare (dal primo gennaio) l’assistenza domiciliare. Eppure quella donna aveva percorso più o meno cento chilometri. Aveva affrontato la traversata della Crocetta per illustrare al responsabile dell’Azienda sanitaria le sue istanze: che non son roba da poco, anzi. Era partita da Scalea Anna Cervati, aveva messo in fila ben benino le parole – che a lei non mancano mica, visto che da trentatré anni fa esercitazioni semantiche sullo stesso argomento – e sperava di poterle pronunciare, quelle parole, nel contesto giusto. Sperava di poter chiedere rassicurazioni a chi occupa il vertice della sanità provinciale, proprio su quel servizio domiciliare tanto prezioso per il figlio Emanuele. Tanto prezioso perché quel ragazzone, ormai adulto solo all’anagrafe, soffre di «adenoleucodistrofia», una patologia che solo a pronunciarla correttamente occorrebbero tre lauree, ci si figuri a conviverci: per trentatré anni, poi.
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