L’omertà perduta. La ’ndrangheta sta subendo colpi durissimi sia in Calabria che in Settentrione per via del pentimento di boss di prima grandezza, di loro fidati luogotenenti e di rampolli di “famiglie” storiche. Al lezzo del carcere in tanti preferiscono il profumo della libertà. Così l’architrave subculturale – il silenzio omertoso – su cui si poggia storicamente la mafia calabrese sta lentamente cedendo sotto il peso di confessioni dirompenti. Domenico Trimboli, noto alle cronache come il “boss dei due mondi”, originario (come ceppo familiare) di Natile di Careri ma con significativi interessi in Sudamerica come in Piemonte sta descrivendo alle procure antimafia di Catanzaro, Reggio e Torino il mercato internazionale della cocaina. Le “tecniche” usate per sfuggire ai controlli, i contatti attivati per importare tonnellate di “polvere bianca” in Europa. Nei giorni scorsi Trimboli (difeso dall’avv. Loredana Gemelli) è stato condannato a 5 anni e 6 mesi di carcere dal Gup distrettuale di Catanzaro nell’ambito di un maxiprocesso che ricostruiva un traffico internazionale di stupefacenti avviato da esponenti delle cosche del Vibonese. Ad Alessandria, invece, è imputato con il fratello, Salvatore, per un’altra storia di mega importazioni di coca. Nel giugno del 2013, il narcotrafficante venne arrestato nel municipio di Caldas, a due passi dall’area urbana di Medellin, in Colombia. Estradato in Italia, nel 2014, ha poi deciso di vuotare il sacco con l’attuale procuratore capo di Catanzaro, Nicola Gratteri. Trimboli ha spiegato che i narcos comunicavano tramite telefoni Black Berry con chat criptate. E quando dovevano effettuare delle chiamate usavano un codice fatto di lettere: ad ogni lettera corrispondeva un numero. Cambiando, di volta in volta le parole chiave, adoperavano sempre numeri diversi su cui contattarsi. I trafficanti calabresi e sudamericani adoperavano anche le e-mail. C’era una unica casella di posta elettronica cui accedevano l’emittente e il destinatario della comunicazione. Il messaggio non veniva mai inviato ma salvato in “bozze”. Chi doveva visualizzarlo lo faceva e, poi, lo cancellava.
Non meno significativa appare la collaborazione che sta offrendo alla magistratura inquirente Domenico Agresta, 28 anni, originario (come ceppo familiare) di Platì ma residente a Volpiano (Torino). Il pentito, detto “Micu McDonald”, è reo confesso dell’omicidio di Giuseppe Trapasso, compiuto in Piemonte, il 15 ottobre del 2008. L’uomo ha parlato agli investigatori pure degli “affari” della sua famiglia nel campo della droga e dei sequestri di persona. Agresta, riferisce tante cose apprese direttamente dal padre, Saverio, e figura anche tra le “gole profonde” utilizzate dalla procura di Milano per far luce sugli esecutori materiali dell’uccisione del procuratore di Torino, Bruno Caccia, avvenuta il 26 giugno del 1983. È stato lui ad indicare il nome del secondo componente del commando che assassinò il magistrato per ordine di Domenico Belfiore, il calabrese capo dell’omonimo clan attivo e determinante, negli anni 70-80, nella prima capitale del Regno d’Italia. Il ventottenne è, tra l’altro, il nipote di Pasqualino Marando, uno dei più importanti narcotrafficanti calabri scomparso per lupara bianca nel 2001. L’uomo aveva accumulato milioni di dollari importando cocaina dall’America Latina. Al momento dell’arresto, avvenuto a Roma, Domenico Agresta era in compagnia proprio del figlio di Marando, Luigi.
E da questo ceppo familiare era già venuto fuori un altro collaboratore di giustizia, Rocco Marando, fratello di Pasqualino e quindi zio di Agresta. Un pentito che ha aiutato i magistrati torinesi a far luce su efferati omicidi parlando pure del “tesoro” del fratello Pasqualino, accumulato con il narcotraffico, nascosto sottoterra e poi trasferito in Calabria. «Miliardi di lire» ha svelato il collaboratore «conservati dentro dei bidoni di plastica». L’ex malavitoso ha detto ai Pm: «C’è ancora gente che campa con i soldi di mio fratello. Gente che vive in Calabria».