Cosenza
Boccaleone è un puntino sulla carta geografica. Un piccolo borgo di 490 anime, un agglomerato di case in mezzo alla campagna del comune di Argenta, nel Ferrarese. Lassù si conoscono tutti e tutti da 28 anni aspettano l’altra verità sulla morte di Denis. Denis all’anagrafe era Donato Bergamini, calciatore di professione, che è morto tragicamente in Calabria, quando militava nel Cosenza, in serie B. La verità processuale affiorata finora da questa storia ha etichettato il decesso del ventisettenne come un suicidio. Una verità contenuta nella sentenza pronunciata il 10 giugno del 1992 dalla Corte d’appello di Catanzaro. Donato Bergamini s’uccise davanti alla fidanzata Isabella Internò lanciandosi sotto le ruote dell'autocarro Fiat 180 NC condotto da Raffaele Pisano, in transito sulla Statale 106 Jonica. L’autotrasportatore reggino, finito a giudizio con l’accusa di omicidio colposo, il 4 luglio del 1991, fu assolto già in primo grado, dal pretore di Trebisacce, Antonino Mirabile, «per non avere commesso il fatto». E così rimase in piedi l’altra ipotesi, quella del suicidio, appunto. Un teorema che venne trasformato in verità dalla magistratura superiore con la sentenza passata in giudicato. Ma lassù, a Boccaleone continuano a credere che la sera del 18 novembre del 1989, una sera di pioggia e di gelo, Denis sarebbe stato ucciso. Omicidio e non suicidio. Una trama che la Procura di Castrovillari, all’epoca guidata da Franco Giacomantonio, ha provato ad esplorare accendendo i riflettori su uno scenario da brividi. Un percorso tortuoso disegnato tra le dune dei traffici di droga e delle scommesse clandestine al totonero. E sullo sfondo, l’ombra sinistra della ’ndrangheta. Ma quella verità alternativa investigata a lungo non è, però, mai affiorata. Verità che da 28 anni rimane imprigionata nel cadavere dell’ex calciatore del Cosenza e nella sua storia oscura. Per quasi quattro anni, dal 2011 al 2015, la Procura di Castrovillari ha indagato in un passato lontano e paludoso.
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