Cosenza

Lunedì 25 Novembre 2024

Sopravvissuto al sangue killer
Ospedale risarcisce paziente

Sopravvissuto al sangue killer Ospedale risarcisce paziente

Fu il plasma sbagliato a uccidere un uomo. Una sacca killer gonfia di “sangue nero” che, nell’estate del 2013, avrebbe provocato la morte del settantanovenne Cesare Ruffolo, di Rende. Il pensionato entrò vivo in ospedale con valori di emoglobina leggermente bassi e ne uscì morto dopo la trasfusione con quel liquido ematico contaminato da un potente germe patogeno, che, in poche ore, avrebbe divorato la sua esistenza. E non fu quello un caso isolato perchè due settimane prima quello stesso sangue era stato utilizzato su un malato quarantenne che, fortunatamente, riuscì a salvarsi grazie al tempestivo intervento d’un medico che individuò l’agente patogeno disponendo una robusta terapia a base di antibiotici. La tragedia delle sacche infette, a distanza di quattro anni, continua a riecheggiare nelle aule di giustizia. Ieri, proprio durante l’ennesima udienza del processo che si sta celebrando davanti al Tribunale di Cosenza (presidente: Enrico Di Dedda), il quarantenne sopravvissuto al killer, attraverso il suo legale, l’avvocato Massimiliano Coppa, ha annunciato la volontà del suo assistito di rimettere la querela. Una decisione che scaturisce dal maxi-risarcimento riconosciutogli dall’ospedale dell’“Annunziata”. L’uomo si era costituito in giudizio citando in qualità di responsabili civili sia l’Azienda ospedaliera che l’Asp dal momento che l’inchiesta giudiziaria aveva coinvolto medici e manager delle più importanti strutture sanitarie pubbliche della provincia di Cosenza.

Soddisfatto, naturalmente, il titolare dell’accusa privata, l’avvocato Coppa che ritiene il risarcimento del danno come «la prima vera ammissione di responsabilità dei vertici delle due aziende».

L’inchiesta è quella che ha stabilito un legame molto stretto tra il Centro trasfusionale dell’ospedale civile e il plasma “nero” che quattro anni fa uccise Cesare Ruffolo. Una ipotesi che è diventata il perno attorno al quale ruota tutta la trama accusatoria, la pietra miliare dell’indagine che è stata sviluppata dai Nas, guidati dal luogotenente Vitaliano Ruga, e corroborata dai dati ispettivi del Ministero e della Regione. Un’inchiesta che ha delimitato gli scenari, fissando i paletti delle responsabiltà nei confronti degli imputati finiti a giudizio. Tra le parti offese del processo, almeno fino a ieri, figurava anche il quarantenne, vittima di lesioni personali colpose perchè rimase vittima di uno choc settico dopo la trasfusione. L’uomo venne salvato dall’intervento dei medici di medicina “Valentini”. E non solo. È stato proprio l’avvocato Coppa a rischiarare lo scenario di quei tragici istanti. «Il mio assistito fece ricorso alle cure del centro trasfusionale dell’Azienda ospedaliera di Cosenza dove, sottoposto ad emotrasfusione, rischiò di morire per una violentissima infezione da serratia marcescens contenuta in quel sangue che gli venne inoculato quale terapia salva vita. Lui si salvò soltanto grazie all’istinto che gli fece chiudere l’ago in vena della sacca dopo aver iniziato a sentire brividi di freddo a causa di una febbre altissima. Rimase in coma, sospeso tra la vita e la morte, e ricoverato per oltre quaranta giorni, come hanno scritto e detto al Tribunale i consulenti del pubblico ministero, e sopravvisse, oltre che per le successive pesanti cure antibiotiche, soprattutto per quell’attimo di lucidità che lo spinse a chiudere l’ago dell’emotrasfusione somministrata in ospedale».

Il quarantenne lascia il processo nella speranza di potersi riprendere, adesso, la sua vita, provando a dimenticare quel maledetto pomeriggio di giugno del 2013 che continua a fargli paura, soprattutto quando settimanalmente si accosta a un trattamento sanitario trasfusionale salva vita a cui è costretto fin dalla nascita. Restano, invece, ancora come parti civili del processo i familiari di Cesare Ruffolo che, nonostante abbiano ricevuto un danno irreversibile riconducibile alla perdita prematura del loro congiunto e gli appelli dei loro difensori, gli avvocati Massimiliano Coppa, Paolo Coppa, Luigi Forciniti e Marianna De Lia, sono costretti a convivere col disastro psicologico della perdita del loro caro a cui assistettero impotenti.

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