Sono passati diciotto anni da quella scia di morte tracciata col fuoco delle lupare e dei kalashnikov. Armi potenti imbracciate dagli assassini di mestiere della ’ndrangheta cosentina. La storia di una guerra che non si dimentica, nell’inferno di Cosenza con omicidi, stragi, cadaveri eccellenti. Le trame nere di quei giorni sono state riannodate nelle richieste cautelari, negli ordini di cattura e nelle sentenze. Atti dai quali affiora la verità dell’esistenza di una “cupola”, un direttorio formato da capi e sottocapi delle “famiglie” dei clan italiani e nomadi che hanno tenuto in ostaggio la città e l’intera provincia. Con boss che, prima, hanno spezzato con le armi le grandi alleanze e, poi, ricomposto con i soldi dei grandi appalti le fratture profonde. Tanti appalti come quello dell’ammodernamento dell’A3 per esempio. Le carte ufficiali della storia criminale recente raccontano il sacco di Cosenza e del Cosentino da parte di bande con tutte le varietà e le razze della malavita più stracciona e violenta di sempre. Una stagione di sangue che lo Stato non ha dimenticato. Uno Stato che, in queste ultime ore, ha presentato il conto ad alcuni dei registi di quella stagione. Il prezzo di tanto sangue e tanta paura è il carcere a vita. “Fine pena mai” per Franco Presta, Ettore Lanzino, Franco Abbruzzese e Nicola Acri: una sentenza col bollo della Cassazione che non fa sconti ai boss di Cosenza e dei mandamenti di Cassano, Rossano e Roggiano. Quattordici anni di carcere, invece, sono stati inflitti all’ex ministro delle finanze del clan di Cosenza, Vincenzo Dedato, che da anni ha deciso di collaborare con la giustizia. Condannato, pure, Franco Bevilacqua, inteso come Franchino i’ Mafarda, il primo zingaro a pentirsi che, prima del 2001, era una specie di califfo in quel suo regno schiacciato tra via Popilia e via degli Stadi, capo di quel clan di nomadi che stava nascendo tra la città e Cassano. Ordinava e uccideva, e sapeva anche essere crudele. Anche per lui è arrivata la condanna.
Ciò che è accaduto in quegli anni passa anche attraverso la ricostruzione di tre delitti e di un tentato omicidio rischiarati dalla Procura antimafia di Catanzaro. “Terminator 3” riannoda attorno alla stessa matrice gli agguati al boss Francesco Bruni, “Bella Bella” e al mammasantissima di Cosenza, Antonio Sena. Una storia che passa pure dall'atroce fine di un ragazzo di malavita, Primiano Chiarello, ucciso e fatto a pezzi nel giugno del 1999 perchè aveva deciso di passare nel nuovo clan. In mezzo ai delitti anche un paragrafo dedicato all’attentato a Umile Esposito, un crimine fermentato a margine dello scenario mafioso.
Il capitolo principale di questa storia oscura resta l’agguato che segnò lo spartiacque definitivo tra la vecchia mafia e quella nuova. La mattina del 12 maggio del 2000, a Castrolibero, un commando assassinò Antonio Sena, una delle icone della storica malavita cittadina. Un uomo di rispetto con amicizie importanti nel Reggino e nel Cirotano. Sarebbe stato ucciso per fermare la sua ascesa al fianco d’un altro temuto boss, Francesco Bruni, anche lui vittima d’un agguato, freddato dieci mesi prima davanti al carcere di via Popilia. Sena venne sorpreso a bordo della sua Rover, in contrada “Motta” di Castrolibero. Al volante c’era un amico e sul sedile posteriore, invece, il figlio. I tre stavano lasciando il parcheggio d’una concessionaria dove erano appena stati per valutare l’acquisto d’una motocicletta. All’improvviso sbucò dal nulla una Lancia Thema che tamponò la vettura in manovra. Dalla berlina uscirono i killer armati di pistola e col volto coperto da passamontagna. Quei due demoni scatenarono l’inferno. Sena fu travolto da una tempesta di piombo e non ebbe scampo. Il figlio e l’austista riuscirono a scappare. Un crimine pagato con il carcere a vita da Lanzino e Presta. Eragstolo, pure ad Abbruzzese e ad Acri che uccisero Chiarello, l’8 giugno del 1999. Il ragazzo si nascondeva a Cerchiara. I carabinieri gli davano la caccia per una rapina in gioielleria a Rossano e lui s’era rifugiato da amici. Andò Nicola Acri a prenderlo e lo portò in una stalla di cavalli allo Scalo di Spezzano Albanese. E lì, sarebbe stato giustiziato da “Dentuzzo”.
L’ultimo crimine è quello del capo degli scissionisti, accoppato all’uscita dal carcere di via Popilia. Con lui finì il sogno del nuovo clan. Zingari e italiani ripresero il controllo di una città che, a distanza di anni, ha cambiato padroni. Una città che rimane schiava del malaffare, con zingari e italiani che continuano a governare imponendo mazzette, vendendo la droga. Gli appalti, invece, sono stati commissariati. Le ultime inchieste hanno svelato i lavori pubblici sono nelle mani dei cetraresi. Ma questa è un’altra storia.