Giovanni Brusca di San Giuseppe Jato. Famoso per aver strangolato il piccolo Giuseppe Di Matteo ed aver premuto il pulsante che provocò la strage di Capaci. Un figlio d’arte – suo padre è Bernardo Brusca – tanto feroce e sanguinario da essere soprannominato dentro Cosa nostra “scanna cristiani”. È lui ad aver parlato ai magistrati antimafia di Palermo e Reggio dei “calabresi” amici dei Graviano. Gente determinata ed affidabile, “azionisti” capaci di tutto.
Dice Brusca: «Dei rapporti militari fra Cosa Nostra e la ‘Ndrangheta posso riferire che alcuni calabresi, all’inizio degli anni 90, si erano rifugiati a Cefalù in un villaggio turistico dei Graviano e di Cannella, dopo un conflitto a fuoco avvenuto in Calabria. Il Villaggio si chiamava Euromare. Erano molto considerati». Si trattava di Dario e Nicola Notargiacomo e Stefanoe Giuseppe Bartolomeo, gli assassini rimasti impuniti del direttore del carcere bruzio, Sergio Cosmai.
Pure Tullio Cannella, braccio operativo di Leoluca Bagarella, cognato di Totò Riina, descrive i quattro cosentini come personaggi tenuti dai capi corleonesi in altissima considerazione. «Gli amici calabresi di Giuseppe Graviano rimasero nostri ospiti in un villaggio per due mesi. Tutti li rispettavano e spesso venivano a trovarli Graviano e Fabio Tranchina. Uno di loro era ferito e venne curato».
Il rispetto i killer nostrani se lo erano guadagnato sparando. È proprio Dario Notargiacomo a chiarirlo: «I delitti in danno di rappresentanti dello Stato, come il caso del direttore Cosmai, agli occhi di Cosa Nostra era come se fossero delle “stellette” dei veri e propri segni distintivi della nostra capacità criminale e della nostra affidabilità». I sicari erano pronti a compiere altri omicidi “eccellenti”. Volevano assassinare un poliziotto – l’attuale comandante della polizia stradale di Cosenza Antonio Provenzano – che (giustamente) li tartassava di controlli e, probabilmente, non avrebbero risparmiato il capo della squadra mobile dell’epoca, Nicola Calipari, se il Viminale non l’avesse spedito in missione in Australia.
È sempre Notargiacomo a rivelarlo: «Nicola Calipari era un obbiettivo del nostro gruppo fin da prima del nostro arresto e della nostra detenzione a Trani per l’omicidio Cosmai. Calipari era un poliziotto che dava “fastidio”, molto tenace e, in particolare, aveva redatto dei rapporti indirizzati al Carcere di Cosenza e quindi al Cosmai, nei quali evidenziava la pericolosità di Franco Perna al fine di fargli revocare la semilibertà. Ciò in epoca antecedente e prossima al 1985. Insomma Calipari era in pericolo». I fratelli Bartolomeo verranno uccisi nel 1991 ed i loro corpi dispersi in Sila. Dario e Nicola Notargiacomo, invece, nel 1993 decideranno di collaborare con la Dda di Catanzaro. Se il gruppo fosse rimasto integro e coeso i quattro cosentini sarebbero diventati gli stabili “rappresentanti” dei corleonesi in Calabria.
“Siamo la stessa cosa": così andavano ripetendo mafiosi e ‘ndranghetisti passeggiando a braccetto prima nel cortile interno del supercarcere di Trani e, poi, sulle rive del Crati. Tutti insieme appassionatamente, in nome degli “affari” legati al traffico di droga e delle armi. In nome dei “piccioli” da intascare a valanga. Gli uomini più vicini a Totò “u curtu” e Binnu “u tratturi” – al secolo Totò Riina e Bernardo Provenzano – furono più volte ospiti di riguardo di esponenti della ‘ndrangheta nella città dei Bruzi. I “viddhani” di Corleone – così li chiamava Stefano Bontate “principe” (spodestato) di Villagrazia – avevano infatti stabilito intensi rapporti con i fratelli Dario e Nicola Notargiacomo e Stefano e Giuseppe Bartolomeo. L’amicizia era nata nel supercarcere di Trani, dove i quattro killer cosentini erano finiti dopo aver assassinato, nel marzo del 1985, il direttore del penitenziario di Cosenza, Sergio Cosmai. In Puglia si trovavano reclusi Pino e Antonio Marchese, implacabili sicari isolani, e il loro onnipotente cognato, Leoluca Bagarella. Lasciato il penitenziario i cosentini presero a frequentare stabilmente i corleonesi
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