L’aria salubre della Sila. Pini millenari, solitari allevatori, i soliti turisti e, soprattutto, pochi “sbirri”. L’ideale luogo di latitanza per “Totò ‘u curtu” al secolo Salvatore Riina, per lunghi anni sanguinario capo degli stragisti corleonesi. Filippo Graviano, suo fedele luogotenente e padrone del quartiere palermitano di Brancaccio, pensava di trovargli un comodo rifugio sull’altopiano calabrese. I rischi erano minimi e gli “amici” che offrivano ospitalità determinati e affidabili. Gente tosta, capace di sfidare a attaccare lo Stato. Dario e Nicola Notargiacomo, Stefano e Giuseppe Bartolomeo avevano ammazzato nel marzo del 1985 il direttore del carcere di Cosenza. E per i corleonesi uccidere un rappresentante istituzionale era come guadagnare delle “stellette”. Per l’agguato al funzionario dello Stato i quattro erano finiti nel supercarcere di Trani dove avevano poi stretto amicizia con Pino Marchese, cognato di Leoluca Bagarella. Lasciato il penitenziario dopo una clamorosa assoluzione, i quattro azionisti cosentini avevano stretto rapporti sempre più intensi con Marchese, poi con Giovanni Drago (altro feroce killer siciliano) e con i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano. L’«amicizia» produsse un ripetuto scambi di armi e droga e una comune assistenza nei momenti di particolare difficoltà. I calabresi, dopo aver subito un agguato, erano stati ospitati e curati proprio dai Graviano in un villaggio turistico. A Cosenza, invece, erano più volti venuti a far visita sia Pino Marchese che Giovanni Drago. Così quando la morsa delle forze dell’ordine si fece sempre più stretta sul “capo dei capi” venne chiesto aiuto ai “compari” d’Oltrestretto. Racconta, in proposito, Dario Notargiacomo, oggi pentito: «Giuseppe Graviano ci chiese la disponibilità di un alloggio in Sila da destinare alla latitanza di Totò Riina». Nessuno, infatti, l’avrebbe mai cercato tra i bioschi incontaminati della più grande montagna calabrese. “ U curtu” tuttavia non ebbe poi bisogno di spostarsi verso il “continente” e il piano relativo ad una sua dorata latitanza non fu attuato. I Bartolomeo ed i Notargiacomo, però, avevano già individuato una villetta elegante in cui farlo stare. Ma Salvatore Riina non è il solo tra i boss siciliani ad aver pensato di nascondersi in Calabria. Un altro “mammasantissima”, il catanese Nitto Santapaola, trascorse lunghi periodi in una masseria posta nelle campagne tra Gioia Tauro e Rosarno ospite del boss Girolamo Molè. L’ha raccontato al procuratore aggiunto antimafia di Reggio Calabria, Giuseppe Lombardo, il collaboratore di giustizia Vincenzo Grimaldi, di Taurianova. Il pentito è uno stretto congiunto dell’uomo che, nel maggio del 1991, nella cittadina pianigiana, venne prima ferito a colpi di pistola, poi trascinato fuori dal market in cui si trovava e, infine, decapitato. La testa venne quindi lanciata in aria e presa a fucilate. Grimaldi spiega: «Nitto Santapola in persona era stato per un lungo periodo ospite della Masseria che io frequentavo quasi quotidianamente. Mommo Molè ne parlava tranquillamente». Un altro siciliano “illustre”, molti anni prima, aveva ricevuto onori e ospitalità nel Reggino: Salvatore Lucania, meglio conosciuto come “Lucky Luciano”. Nel 1958 fu accolto come un monarca dagli “amici” di Palmi, Gioia e Bagnara.