L’hanno chiamata per decenni la provincia “babba” della Calabria. E invece, soprattutto tra gli anni Ottanta e Novanta, il Cosentino è stato il fortino di mafiosi di altissimo spessore, legati addirittura al gotha di Cosa nostra e a quella grossa fetta di Camorra che sfidò il “professore” Raffaele Cutolo. Nell’inchiesta sulla ’ndrangheta stragista un ruolo di primissimo piano lo ricopre infatti il “boss dagli occhi di ghiaccio”, l’ex padrino del capoluogo bruzio Franco Pino, un uomo che ha chiuso la sua parabola criminale passando dalla parte dello Stato. Una collaborazione ormai datata, la sua, legata però a quella di altri pentiti calabresi e siciliani che costituiscono l’impalcatura della clamorosa indagine messa a segno dalla Dda reggina. Sono gli stessi magistrati della città dello Stretto a definire Franco Pino un «dichiarante di straordinaria lucidità e precisione», un «capo indiscusso» in grado di riferire un’enorme quantità d’informazioni «in modo chiaro ed esatto». È lui a sottolineare il legame tra i palermitani Graviano (il clan di Brancaccio protagonista della stagione delle stragi) e i cosentini Notargiacomo. Ed è sempre lui ad essere direttamente convocato al vertice del “Sayonara”, il villaggio turistico di Nicotera durante il quale ai massimi esponenti della ’ndrangheta sarebbe stato proposto di aderire alla strategia stragista lanciata dai corleonesi.
A quell’incontro non sarebbe stato invece invitato un altro personaggio centrale della ’ndrangheta bruzia, anche lui divenuto collaboratore di giustizia, il boss rossanese Pasquale Tripodoro. L’ex padrino jonico racconta ai pm della Direzione distrettuale reggina di aver appreso di quel vertice a Nicotera da Santo Carelli, capomafia della vicina Corigliano recentemente scomparso. Una scoperta arrivata «in modo casuale» che lasciò Tripodoro «molto offeso». «Io, per la verità, rimasi male del fatto che non ero stato convocato – ha riferito il vecchio boss di Rossano in un interrogatorio reso nel gennaio di tre anni fa –. Mi venne spiegato da Carelli che quelli di Cirò non volevano che io fossi presente». Quelli di Cirò altro non sono che i fratelli Farao e Marincola, capi del “crimine” del centro crotonese che da sempre esercita la sua influenza anche sul Cosentino. Per uno come Tripodoro, sapere che al summit fosse presente anche il coriglianese rappresentò uno smacco notevole: «In effetti Carelli aveva un grado di ’ndrangheta inferiore al mio. Aveva me nella sua copiata!» ha messo a verbale il rossanese. A questo punto, gl’inquirenti hanno chiesto se Tripodoro abbia cercato spiegazioni dai cirotani sul suo mancato invito. Nella ’ndrangheta, soprattutto in quella così feroce di quegli anni, fare domande del genere rappresenta tuttavia un rischio enorme: «Se lo avessi fatto avrei decretato la mia morte».
A Cosenza e provincia il potere dei clan autoctoni è stato sempre colpevolmente negato. Anche di fronte a episodi eclatanti, come l’assassinio del direttore del carcere bruzio Sergio Cosmai. Un’isola felice che di felice non ha mai avuto nulla. A confermarlo è l’inchiesta della Dda di Reggio Calabria che assegna proprio ai cosentini un ruolo importante nelle dinamiche ’ndranghetistiche, soprattutto tra gli anni Ottanta e Novanta. Oltre alla fondamentale figura di Franco Pino, accenni vengono anche fatti su altri padrini rispettati e temuti: Franco Muto di Cetraro, Giuseppe Cirillo di Sibari e Franchino Perna di Cosenza. Per non parlare dei fratelli Notargiacomo, amici e alleati dei Graviano, il clan palermitano di Brancaccio protagonista nel corso della stagione delle stragi. Una strategia che Pino e gran parte degli altri calabresi avrebbero rigettato, salvo poi servirsene in alcuni casi per interessi particolari. Il “boss con gli occhi di ghiaccio” lo dice a chiare lettere: «Preciso che in Calabria all’epoca “si viveva bene” dal punto di vista criminale; vi erano infiltrazioni tali da consentire anche di ottenere vantaggi processuali e non era necessario entrare in contrasto con lo Stato».