È una piaga che ha sempre tormentato la chiesa. Una ferita sul costato che si riapre puntualmente dopo ogni denuncia. È lo scandalo più grave che da secoli imbarazza il mondo cattolico e che oggi preoccupa Papa Francesco attivamente impegnato a ripulire parrocchie e sacrestie dagli orrori nascosti del passato. La storia dei preti condannati per atti sessuali, violenze, abusi provoca dolore solo a immaginarla. La cronaca, però, è piena di casi che vengono quotidianamente ricostruiti in aule di Tribunali, condensati in carte e fascicoli processuali. I presbiteri “infedeli” scivolano nel peccato e non hanno più la forza di risollevarsi. Trame inspiegabili come quella rischiarata dal processo che si è chiuso proprio ieri con una sentenza definitiva pronunciata nei confronti di un sacerdote della diocesi di Rossano, don Giuseppe Esposito, cinquantaquattro anni, macchiati da quell’unico episodio. Un solo fatto per il quale la Cassazione lo ha condannato a un anno e due mesi, confermando la sentenza pronunciata qualche anno fa dal Tribunale di Cosenza e ribadita successivamente dalla Corte d’appello di Catanzaro.
Una storia oscura che cominciò su un autobus universitario che stava spostandosi lungo la linea Arcavacata-Rende. Era pomeriggio, il pomeriggio dell’undici marzo del 2009. Su quel mezzo viaggiava anche una ragazza di poco maggiorenne, studentessa fuori sede, diretta a casa di un’amica, a Commenda per approfondire una lezione. Don Giuseppe era lì, sembrava assorto nei suoi pensieri, concentrato nella preghiera. Poi, però, qualcosa sarebbe accaduto nella sua testa. Si sarebbe alzato e lentamente avrebbe avvicinato la studentessa fino a sfiorarla. Il prete avrebbe tentato di compiere atti di libidine sulla bella universitaria divenuta improvvisamente la fonte di una irresistibile attrazione fatale per il prete. L’avvocato Pasquale Naccarato, che si è sempre battuto nella difesa in dibattimento del sacerdote, era riuscito ad ottenere la derubricazione del reato inizialmente contestato di tentata violenza.
La fede di don Giuseppe vacillò improvvisamente quel giorno, quando, spinto da pulsioni incontrollabili, avrebbe allungato le mani sulla studentessa, accarezzandola ripetutamente, stringendola contro un finestrino del bus fino a provocarle alcune abrasioni al volto. La ragazza si sarebbe liberata alla fermata del mezzo di trasporto quando «le porte si aprirono, mi girai e vidi la cerniera dei pantaloni abbassata e la cintura allentata». Subito dopo il maniaco sparì, allontanandosi in fretta, temendo d’essere riconosciuto. La poveretta, ancora sotto choc, corse dai carabinieri per denunciare l’aggressione. Ma don Giuseppe venne individuato dopo qualche settimana anche grazie alle precise indicazioni della ragazza che forse aveva capito che quel maniaco non era una persona qualunque ma portava le “insegne” dei ministri di Dio. Un particolare che spianò la strada all’inchiesta del pm Salvatore Di Maio. Nelle settimane successive, i carabinieri ricevettero anche una lettera anonima che faceva riferimento proprio al caso della ragazza molestata sul bus universitario. Poche righe dattiloscritte per chiedere perdono per quella “debolezza” e affidare «l’anima a Dio». E, ancora, l’autore dello scritto confessò di soffrire di una «grave forma di depressione che mi impedisce di svolgere le funzioni sacerdotali e quelle di docente». Don Giuseppe però non ha mai ammesso d'aver scritto quella lettera. Ieri, la condanna definitiva.