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Ammazzò il padre di due pentiti, revocato il 41 bis a Ciro Nigro

Ammazzò il padre di due pentiti, revocato il 41 bis a Ciro Nigro

Ciro “l’azionista” non è più socialmente pericoloso. E nemmeno la barbara vendetta trasversale ai danni di due collaboratori di giustizia, per la quale “l’azionista” è stato già condannato in via definitiva all’ergastolo, è un motivo valido per mantenere il massimo livello di sicurezza carceraria. Per questo, grazie alla decisione presa dal Tribunale di sorveglianza di Roma, è stato revocato il regime detentivo del 41 bis al coriglianese Ciro Nigro, personaggio di spicco del gruppo criminale che per anni ha inondato di sangue la Sibaritide.

Il caso Nigro può apparire venato di pura tecnica giuridica, ma le ricadute concrete sono evidenti. Tutto nasce dal ricorso presentato dal difensore del 51enne originario di Corigliano, l’avvocato Antonio Sanvito. Un atto basato essenzialmente su due assunti: al suo assistito, accusato più volte d’associazione a delinquere di stampo ’ndranghetistico, è sempre stato attribuito il ruolo di partecipe, insomma di semplice “soldato” e non di boss; i clan ai quali Nigro ha aderito, a cominciare dal “locale” della sua città nelle mani del mammasantissima Santo Carelli (vecchio padrino scomparso di recente) si sono sostanzialmente dissolti. Motivi validi, per la difesa, ai fini della concessione d’un regime detentivo meno duro. La Direzione nazionale antimafia s’è opposta chiedendo invece la conferma del 41 bis, ma alla fine il Tribunale di sorveglianza capitolino ha ritenuto consistenti e condivisibili le tesi dell’avvocato Sanvito.

Certo, per Ciro Nigro sarà molto complicato riscoprire il profumo della libertà. Tante le condanne ricevute, compresa qualche assoluzione. Ma la sua storia criminale rimarrà segnata dal fatto di sangue probabilmente più grave che lo ha visto coinvolto in prima persona. Correva del resto l’anno 2001 e tra Corigliano, Cassano e la rigogliosa campagna sibarita era in corso una spietata guerra di mafia. Una battaglia tra clan che aveva già riempito le strade di cadaveri. E che stava spingendo alcuni “picciotti” a farla finita con quella vita. Fu quello il caso di Giovanni e Antonio Cimino, che proprio a cavallo del nuovo millennio stavano permettendo alla magistratura di entrare nel “cuore” della ’ndrangheta coriglianese. Metterli a tacere personalmente era impossibile. Le attenzioni di qualcuno che non è mai stato individuato con certezza si spostarono così su Giorgio Cimino, il padre dei due pentiti. Un altro collaboratore ricostruì la dinamica di quell’assassinio, Vincenzo Curato: era lui lo “specchiettista”, l’uomo incaricato d’individuare la vittima predestinata e avvisare immediatamente il commando chiamato a portare a termine la sentenza di morte. Appena vide Giorgio Cimino entrare in un bar corse così verso un garage, dove ad aspettarlo c’erano Ciro Nigro ed Eduardo Pepe già pronti per colpire. La moto di grossa cilindrata partì sgommando. «Quando raggiunsi il bar – raccontò il pentito – Cimino era già agonizzante».

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