Parole da “malandrino”. I mafiosi calabresi, tra un traffico di droga e l’altro, tra una richiesta di “pizzo” e un accordo concluso con politici e faccendieri, non riescono ad affrancarsi dai “riti” – quelli antichi, ammantati di strampalata sacralità – che rimangono il tratto identitario e centrale della loro subcultura. “Riti” dai quali non possono e non vogliono liberarsi e che appaiono come una invisibile catena che lega il passato al presente, il vecchio al nuovo. La ’ndrangheta si nutre di simbologie e si fortifica con i “giuramenti d’onore” trasmessi dalla tradizione orale. Formule astruse che, spesso, si ritrovano malamente ricopiate in manoscritti sequestrati in casa di pesci piccoli e grandi della ’ndrangheta. Piccole agende e quaderni gelosamente conservati dagli uomini della “fibbia” – così definiva Corrado Alvaro la mafia nostrana – rivelano l’armamentario linguistico caro alle cosche. Un armamentario identico dall’Aspromonte alla Sila. L’ultimo “codice” è stato ritrovato dalle forze di polizia nei giorni scorsi, in via Sesti, a Cosenza, su un’auto di proprietà di Alberto Novello, piccolo trafficante di droga. L’uomo teneva sulla vettura divise, piccole partite di cocaina e armi del suo gruppo criminale di riferimento. Non solo sul mezzo custodiva pure un codice di affiliazione alla ’ndrangheta. Il testo non rivela cose nuove: si parla del “battesimo” dei nuovi adepti, dei tre cavalieri spagnoli, delle “doti” (i gradi) e di come si trasforma un posto normale in un sacro luogo di affiliazione. Il documento è finito nelle mani del pm antimafia di Catanzaro, Camillo Falvo, uno dei magistrati più esperti di lotta alla criminalità organizzata in Calabria. La scoperta infatti non viene per nulla sottovalutata perché testimonia dell’esistenza di un’associazione delinquenziale ben organizzata e attiva nel capoluogo bruzio. Un altro “codice” era stato rinvenuto dagli investigatori, nel dicembre del 2014, a Cerisano, in casa di un sorvegliato speciale. Nel documento si faceva esplicito riferimento ai “tre cavalieri” iberici rintracciabili in quasi tutti gli altri testi acquisiti dalla magistratura in Calabria, nelle Americhe e in Australia. Questo il passaggio: “Saggio compagno dove vi hanno battezzato?”. La risposta: “Sopra un monte dove c'era un giardino di rose e fiori e c’erano i nostri tre fratelli cavalieri spagnoli Osso, Mastrosso e Carcagnosso convenzionati per la mia consacrazione”. Il richiamo alla “Spagna” è una costante: nei documenti simili ritrovati dalle forze dell’ordine negli ultimi cento anni il nome della nazione che s’affaccia in parte sul Mediterraneo ricorre continuamente. Alla penisola iberica si fa infatti risalire l’origine delle consorterie mafiose meridionali. La circostanza è certamente riconducibile alla dominazione esercitata prima dagli aragonesi e poi dai castigliani su Campania, Calabria e Sicilia. Per lungo tempo, inoltre, si è inteso erroneamente ricondurre alla “Garduna” spagnola l’origine della ’ndrangheta. La “Garduna” era un’associazione di malavitosi resa nota, alla fine dell’Ottocento, dallo scrittore Victor de Fereal che, tuttavia, s’è poi scoperto, l’aveva inventata di sana pianta. Non è in effetti mai esistita in Spagna una organizzazione criminale con questo nome.
Passa tuttavia il tempo, cambiano i riferimenti geografici ma il ritualismo della mafia calabrese rimane sempre uguale.
Nel 2013, invece, un ragazzo di vent’anni cui era stata affidata la custodia dell’arsenale delle cosche di Rende, aveva tentato di masticare e ingoiare il “fogliettino” su cui era riportata la “copiata” cioè la “patente” di ’ndranghetista datagli al momento dell’affiliazione. Masticò ma non abbastanza, tanto che i carabinieri riuscirono a fargli sputare la “carta” compromettente.
Nel Cosentino, un altro codice era stato rinvenuto nel 1999, nell’abitazione di un sorvegliato speciale del Paolano. Nel testo comparivano gli stessi temi e i medesimi personaggi di oggi.
Le prime “regole”
Un codice mafioso e dei manoscritti furono ritrovati nel Paolano nell’ottobre del 1999. In quel periodo i carabinieri stavano indagando sul misterioso allontanamento di un soggetto d’interesse investigativo. In casa del quarantatreenne, gl’investigatori scovarono lettere, telegrammi e, soprattutto, all’interno d’un comodino, fogliettini manoscritti in cui erano indicati i nomi dei “padrini” che avevano tenuto a battesimo due nuovi fidelizzati. La prima “copiata” portava la data del 27 agosto 1998, la seconda, del 27 febbraio 1999. In entrambe, il caposocietà veniva indicato nel presunto capoclan di San Lucido, Romeo Calvano. Il contabile, invece, era Franco Gabriele di Terranova da Sibari. La rosa di nomi era completata da Ettore Lanzino indicato come “puntaiolo”, cioè incaricato di far sgorgare il sangue dal polso del nuovo affiliato, e da Giuliano Serpa, “picciotto di giornata”. Il codice della ’ndrangheta ritrovato in quella occasione, rivelava invece come le procedure di affiliazione siano ormai identiche a quelle in vigore in tutte le altre province della regione da mezzo secolo. Il dato appare interessante perchè conferma come la ’ndrangheta abbia mantenuto una sua simbologia rituale divenuta, nel tempo, una sorta di patrimonio subculturale da custodire gelosamente.
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