E’ uno spettacolo nello spettacolo vedere una sala cinematografica piena. È successo domenica a Cosenza, al cinema San Nicola. La proiezione in anteprima del film «La festa del ritorno» ha richiamato il pubblico delle grandi occasioni. Direttore della fotografia per cinema, fiction (Il giovane Montalbano, Imma Tataranni) e pubblicità, Lorenzo Adorisio si cimenta per la prima volta con la regia di un lungometraggio. E sceglie un tema che per vicende personali simili lo tocca da vicino, esattamente com’era successo a Carmine Abate, autore del romanzo da cui «La festa del ritorno» è tratto, scrittore calabrese di Carfizzi, premio Campiello, molto amato dai lettori, di cui è appena uscito il dodicesimo romanzo, «Un paese felice» (Mondadori). «È stata una grande emozione vedere il mio romanzo trasposto sul grande schermo» afferma Abate, presente al San Nicola e visibilmente emozionato.
Il delicato e discreto tocco autobiografico permea la pellicola di una genuinità sopraffina così com’era successo alle pagine intense del libro. E l’esperienza dello scrittore e del cineasta s’incontrano mirabilmente.
Sul palco, Abate si racconta un po’: «Il film e il romanzo hanno una matrice comune – sottolinea – quella di narrare questa nostra Calabria, un luogo da cui si emigra e in cui si torna in un flusso costante di rimando che non conosce sosta. Le radici profonde, il senso di appartenenza. Un legame che non si spezza. Una condizione sospesa che porta in grembo un carico di vite, dolori, speranze. Un cammino costellato di tormenti e sempre ondivago tra partenze e restanze». Il pubblico applaude entusiasta.
Accanto a lui l’eccellente cast, tutto calabrese: Carlo Gallo, Anna Maria De Luca, Annalisa Insardà, Federica Sottile, allieva diplomata alla Scuola di Recitazione della Calabria, il giovanissimo Fortunato Staglianò, iscritto alla SRC-Lab, per la prima volta sullo schermo il piccolo Daniele Procopio, che interpreta Marco, il ragazzino protagonista, e Alessio Praticò, nel ruolo di Tullio.
Ancora una volta padrone di casa, il preziosissimo Pino Citrigno, appassionato sostenitore della Settima Arte. E non poteva mancare il supporto e la presenza del commissario della Calabria Film commission, Anton Giulio Grande. Il suo lavoro e quello di tutta la Fondazione, a servizio della Calabria e del Cinema – nel solco tracciato da Citrigno durante la sua presidenza, che diede un nuovo impulso al rapporto tra cinema e Calabria – , sta indubbiamente lasciando il segno. «Siamo felici di aver sostenuto questo film – ha commentato il commissario straordinario – perché crediamo fortemente nell’incrocio tra scrittura di qualità, estetica cinematografica e promozione dei luoghi, intese come location caratterizzate che la Calabria sa offrire a chi vuole girare». Inoltre, non ha mancato di porre l’accento sulla natura internazionale della produzione, italofrancese, elemento che regalerà grande visibilità alla Calabria anche oltre i confini.
Poi tocca al film. L’epopea dolorosa di chi parte per necessità ha un destino paradossale e crudele. Perché esula dalla buona o cattiva riuscita della sua missione migratoria. E si porta dietro il bagaglio amaro del distacco. Dalla famiglia, dalle persone care, dalla terra d’origine, un paesino dalla propria infanzia e adolescenza. Ricco di avvenimenti, il plot scorre a meraviglia, senza pause, senza battute a vuoto. Sono tanti i temi che si intersecano attorno all’emigrazione e trovano una matrice comune nello sguardo di Marco, il ragazzino di 11 anni che vede il papà, Tullio, partire per ragioni di lavoro, e lui rimanere con la nonna, la mamma e la sorella maggiore, ed essere investito dal bisogno impellente di crescere in fretta, di sostituire la figura maschile paterna. In mezzo alle vicende umane, si staglia la natura selvaggia e incontaminata dei paesaggi calabresi: il film è stato girato tra Cirò Superiore, Carlizzi e Melissa. Una natura ancestrale, silenziosa ma presente, che contribuisce non poco al pathos del racconto diretto da un Lorenzo Adorisio molto ispirato. Ne abbiamo parlato con lui.
Possiamo affermare che “La festa del ritorno” sia un racconto di formazione?
«Assolutamente sì, di un ragazzino di 10-11 anni che si vede costretto a stare la maggior parte dell'anno da solo in questo piccolo paese calabrese e soffre tantissimo per la mancanza del padre. E attraverso questa mancanza sviluppa un interesse per il mondo esterno. E soprattutto è un ragazzino che ascolta e assorbe molto dal mondo degli adulti tant’è che nel film il protagonista parla pochissimo ma ascolta, spia molto ciò che accade in famiglia e nel mondo che lo circonda».
Quanto c’è, nella sua pellicola, di quella Calabria che ha conosciuto da adolescente?
«C’è tanto. C’è il fascino di una terra che ha tanta cultura antica e che è rimasta ancora selvaggia. È un posto che mi ha sempre affascinato da quando ero piccolo. Andavo in una casa che aveva mio padre e rimanevo affascinato da un mondo a me estraneo, da tutte quelle vecchiette affacciate ai balconi, vestite di nero. Mi ha sempre molto colpito, era un mondo estraneo a me che venivo da Roma. Respingente e contemporaneamente affascinante. È stata questa la calamita che mi ha portato in Calabria».
Quando si parla della Calabria, c’è sempre il rischio di essere risucchiati dai luoghi comuni… ha prestato attenzione a questo aspetto?
«No, assolutamente. È un film che non racconta. Non è una commedia, non è un thriller. Parla dei sentimenti di una famiglia. È dunque molto lontano da quelli che sono i luoghi comuni... Il mio obiettivo era di narrare una favola universale. Ho sfruttato la Calabria per il suo fascino, per i miei ricordi».
Nel film è sotteso un messaggio naturalistico, di ritorno alla natura. La fotografia di paesaggi incontaminati suggerisce ritmi di vita più riflessivi e contemplativi…
«È assolutamente vero! Oggi si parla tanto di meditazione e la Calabria è un posto meraviglioso per meditare. Dove poter recuperare le energie. È il luogo perfetto per riflettere su sé stessi, non ne conosco di migliori».
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