Ha radici profonde, la violenza. E conseguenze dilaganti che serpeggiano negli animi di chi ne è protagonista. Del carnefice. Della vittima. Marchiandoli indelebilmente.
Luigi ha vent’anni, vive con la madre, Licia, un fratello, Alessandro, e l’ombra di Franco, il papà. L’ombra soffocante di un padre che con i suoi atti di violenza e di prepotenza ha rovinato l’infanzia dei suoi figli e la giovinezza della compagna. Luigi frequenta un gruppo di estrema destra in cui rabbia, violenza e prevaricazione continuano a essere una presenza costante. Un giorno, Franco torna a casa per ritrovare figli e moglie, ma i suoi demoni non l’hanno abbandonato...
È un racconto intenso quello di “Familia”, con i ritmi del thriller, i tocchi cupi del noir, l’attualità del sociale. Che coinvolge lo spettatore fin dentro le vicende. In atmosfere pregne di ansia. Di suspense. La pellicola diretta dal cosentino Francesco Costabile è tratta da una storia vera e ispirata al libro “Non sarà sempre così” scritto proprio da uno dei protagonisti delle drammatiche vicende narrate, Luigi Celeste. Lunedì sera, è stata presentata al cinema Citrigno di Cosenza, con lo stesso regista, l’attore Francesco Di Leva (Franco) e il direttore della distribuzione di Medusa Film, Paolo Orlando, che ha parlato in termini entusiastici di Costabile, “un regista di grande levatura e di cui sentiremo presto parlare anche a livello internazionale”.
Al termine della proiezione, abbiamo incontrato Francesco Costabile per conversare del suo film che oltre a Di Leva annovera nel cast anche Barbara Ronchi e Francesco Gheghi premiato per “Familia” all’ultima Mostra internazionale del cinema di Venezia come miglior interprete maschile nella sezione Orizzonti.
Penso che certi film abbiano anche un forte peso sociale. E che potrebbero toccare corde sensibili nell’animo di chi vive situazioni di violenza…
«Sì, questo film ci permette di entrare nella violenza e in tutti quei meccanismi di manipolazione che si vivono nei contesti familiari quando c'è una verticalità, un uomo o un padre che usa i suoi figli e la propria compagna seguendo una strategia di manipolazione. E il cinema ci lascia, grazie all'arte, osservare. “Familia” si pone a una certa distanza. Osserva senza giudicare. E questo ci consente di leggere, individuare i segnali che possiamo poi ritrovare nelle nostre vite. Perché la violenza di genere, la violenza patriarcale è qualcosa connaturata al nostro tessuto sociale, alla nostra cultura e quindi spero che gli spettatori possano fare un'autoanalisi, un'autocoscienza, e rendersi conto di alcuni meccanismi anche inconsci che possono portare a estreme conseguenze».
La sensibilità di chi ha vissuto realmente i fatti e quella di chi deve costruire una storia per il grande schermo che funzioni… Com’è andata con Luigi Celeste?
«È la prima persona che ho incontrato dopo aver letto il libro. È stato una presenza costante per tutto il film. Io tra l'altro vengo dal documentario quindi per me avere un riscontro con la realtà, in questo caso con le vittime della storia, è stata fonte di ispirazione e di arricchimento. Questo non significa che puoi essere sempre fedele ai fatti. Questi si possono anche trasfigurare, senza tradire l'essenza del film, però, e con profondo rispetto verso il vissuto delle persone realmente coinvolte».
La contaminazione di generi presente in “Familia” è una delle peculiarità più interessanti…
«Sì, io amo molto i generi cinematografici, perché in qualche modo mi permettono di avvicinarmi al pubblico, usare dei codici che sono anche degli archetipi narrativi e quindi rendere il film universale. “Familia” parla non soltanto al pubblico in Italia, ma anche al pubblico di tutto il mondo, tant'è che è stato venduto in diversi paesi. E poi credo che la finzione sia uno strumento essenziale per interpretare e leggere la realtà. Perché possiamo andare in profondità, oltre la superficie del reale».
“Familia”… ci racconti l’origine di questo titolo?
«Ho deciso io, questo titolo perché in qualche modo richiama l'origine del patriarcato. La desinenza latina familia richiama quel contratto, il contratto del pater familias che sanciva un diritto di proprietà. Diritto di proprietà anche verso i figli e verso la propria compagna. E ciò rappresenta l'origine della cultura patriarcale, di un nemico comune che dobbiamo combattere insieme. Sia gli uomini sia le donne».
Dopo la proiezione, abbiamo chiacchierato anche con Francesco Di Leva che in “Familia” interpreta Franco, padre e compagno violento.
Raccontaci com’è nato il “tuo” Franco.
«È una storia di 30 anni fa. Ho visionato e studiato foto, documenti, atti processuali. Da questa base ho costruito il mio personaggio. E poi mi sono affidato alla sensibilità di Francesco Costabile. Abbiamo cercato di restituire allo spettatore un Franco che ogni tanto chiedesse anche aiuto a sé stesso e alla propria famiglia. Sebbene, per ovvie ragioni, quel verme solitario che è dentro di lui, prenda il sopravvento, seminando devastazione, terrore e tragedia all'interno della famiglia».
Quando sono ispirate a fatti realmente accaduti, le sceneggiature “forti” hanno un peso diverso?
«Assolutamente sì. Tu prendi in mano una sceneggiatura, entri nella scrittura, vedi le luci, vedi che tutto è finto. E poi in realtà lo strazio vero è quando incontri gli occhi di Luigi e di Alessandro, i protagonisti reali, che vengono a Venezia a vedere quel film, insieme al figlio di Alessandro e alla moglie. E quando incontri quegli occhi ti rendi conto che sei un uomo fortunato se vivi in una famiglia dove ti hanno insegnato a essere un ragazzino felice. Ad avere la protezione di un padre».
Spesso, dietro i gesti di violenza si celano grandi insicurezze. Si può dire lo stesso per Franco?
«Franco è sicuramente un uomo insicuro, un manipolatore affettivo, non è soltanto un uomo violento e basta. È uno che la violenza la costruisce psicologicamente. Ed è proprio patologico, nei manipolatori affettivi, essere insicuri. Per la loro insicurezza, cercano di vittimizzare e rendere colpevoli gli altri di alcuni atteggiamenti, la moglie, i figli».
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