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'Ndrangheta, i figli “traditori” spaventano i padrini: luce su omicidi e affari

I figli “infami”. La ‘ndrangheta è una mafia basata essenzialmente su vincoli di consanguineità. Vincoli spesso ampliati attraverso matrimoni combinati tra rampolli di “famiglie” diverse. In questa logica di parentele incrociate e famiglie claniche lo scettro di comando passa di padre in figlio, di fratello in fratello, di zio in nipote seguendo la logica di una sorta di legge dinastico-mafiosa.

Chi è designato a ruoli di comando sa che dovrà essere pronto a sparare e fare carcere. Sa che dovrà tutelare la cosca e tenere la bocca chiusa. Non tutti, però, riescono a rimanere muti e rassegnati anche quando le cose si mettono male.

E così può accadere che figli d'importanti personaggi della 'ndrangheta, parenti prossimi di stelle lucenti del firmamento mafioso calabrese, decidano di “cantare”. Francesco Farao di Cirò, figlio del superboss Giuseppe, collabora con la giustizia da più di un anno.

Ha scelto di lanciarsi tra le braccia dello Stato quando è rimasto impigliato nelle maglie dell'inchiesta “Stige”. Farao parla di tante cose perchè conosce molti segreti del padre. Riferisce, per esempio, di Franco Gigliotti, 50enne imprenditore di Torretta di Crucoli ma residente a Montechiarugolo di Parma, molto conosciuto in Emilia soprattutto per essere stato socio del Parma calcio, ma anche sponsor del rugby a Colorno e del calcio a Noceto e Felino. Gigliotti viene descritto da Francesco Farao, come una persona di famiglia.

«Ricordo che – racconta Farao – nel periodo in cui mio fratello ha iniziato a lavorare per Gigliotti, dal 2013 circa in poi, Vittorio era solito tornare da Parma con dei soldi in contanti che lo stesso Franco Gigliotti appositamente consegnava a lui per il sostentamento carcerario di nostro padre». E ancora: «Vittorio mi raccontava che Gigliotti finanziava periodicamente la stessa detenzione di Cataldo Marincola» .

Giuseppe Giampà di Lamezia Terme, figlio di Francesco Giampà detto “il professore”, è stato invece condannato, nei giorni scorsi, a 20 anni di reclusione perché accusato di ben 15 omicidi. Giampà junior ha offerto negli ultimi anni agli inquirenti una collaborazione piena e, soprattutto, devastante.

È stato lui a raccontare cosa conta davvero nella ‘ndrangheta: non i riti, né le simbologie, tanto meno i “codici”. «Nel nostro mondo comanda chi ha più batterie, cioè uomini pronti ad ammazzare senza fare domande. Sicari giovani, sconosciuti a tutti, insospettabili. Il mio sicario più fidato il giorno faceva le migliori granite di Lamezia, c’era la fila...poi la notte ammazzava chi gli dicevo io. Ne ha fatti fuori sette otto...».

E che dire di Emanuele Mancuso di Limbadi, figlio di quel Pantaleone Mancuso inteso come “l'ingegnere” arrestato nei mesi scorsi in Sudamerica, diventato il più determinato accusatore della sua famiglia. Il primo pentito della cosca Mancuso ha parlato di estorsioni, di traffici di droga – rilevanti le sue confessioni nella recentissima inchiesta “Ossessione”- di agguati compiuti da un ben preciso «gruppo di fuoco» operante tra Nicotera e Limbadi e dei rapporti personalmente avuti con il boss di Filandari, Leone Soriano.

Dal passato arrivano le storie di altri figli “infami”. Basti pensare ad Antonio Zagari, figlio pentito del capobastone di Varese, Giacomo, originario di Rosarno, che negli anni 90 con le sue dichiarazioni ha provocato terremoti giudiziari in Nord Italia; ed a Pino Scriva, figlio di Ciccio Scriva, uomo di rispetto a tutto tondo di Rosarno, che nei primi anni 80 decide di collaborare con la magistratura determinando centinaia di arresti e decine di processi.

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