La memoria recuperata. Lucio Ferrami, imprenditore di origine settentrionale stabilitosi in Calabria, venne assassinato nell’ottobre del 1981 ad Acquappesa, piccolo centro costiero del Cosentino. I killer della ’ndrangheta, rimasti impuniti, l’uccisero mentre viaggiava in auto in compagnia della moglie, Maria Avolio. Ferrami morì perché aveva osato ribellarsi al racket. Ai picciotti che erano andati a chiedere il “pizzo” rispose a muso duro. Tenne la schiena dritta, si rifiutò di pagare e denunciò subito il fatto alle forze dell’ordine. In quegli anni lontani mostrò un coraggio inusuale: tutti pagavano, non c’era l’ombra della cultura dell’antimafia e molte Istituzioni tolleravano i maggiorenti della mafia. I boss spadroneggiavano, imponendo la loro “legge” a suon di pallottole e fucili caricati a lupara. Dal punto di vista normativo non esisteva ancora l’articolo 416 bis del codice penale che prevede e punisce quanti si associano per costituire un clan mafioso. I processi istruiti contro i capibastone ed i loro reggicoda si concludevano con clamorose assoluzioni o esigue condanne. Una parte della classe politica negava l’esistenza della ’ndrangheta, molti eletti chiedevano i voti ai mammasantissima dicventandone complici. Nessun commerciante osava alzare la testa. Lucio Ferrami, invece, che aveva sposato una calabrese alla quale chiedeva spesso come mai i suoi conterranei non difendessero la regione in cui vivevano dallo strapotere dei cosiddetti “uomini di rispetto”, aveva mostrato di non essere incline a vendere l’anima al diavolo. Agli “ambasciatori” dei clan aveva mostrato con fierezza tutta la sua coraggiosa dignità. «Non pago e vi denuncio!»: questa fu la frase che non ebbe pèaura di pronunciare al cospetto degli sgherri mandati a vessarlo. Punirlo con la morte divenne pertanto una priorità per i “padroni” di quell’area della Calabria. Bisognava ucciderlo prima che altri ne emlassero l’audacia imprenditoriale, umana e culturale. Ferrami cadde sotto i colpi dei sicari undici anni prima dell’altrettanto Libero Grassi, ammazzato a Palermo. Dopo la morte, tuttavia, al contrario di quanto avvenne con Grassi successivamente, venne dimenticato. L’ingiusto oblio l’ha ingoiato fino a quando l’associazione antiracket di Cosenza non ha scoperto la sua tragica ma al tempo stesso bellissima storia. E così domani, alle 10,30, si ritroveranno nel luogo dove avvenne l’agguato costatogli la vita, molti rappresentanti istituzionali, i suoi familiari e tanti studenti, per deporre una corona di fiori in sua memoria. L’appuntamento è voluto e organizzato proprio dall’associazione antiracket cosentina “Mani Libere” che si propone, ricordando il suo esempio, di diffondere un messaggio di partecipazione attiva alla cittadinanza e alle nuove generazioni. Alla cerimonia parteciperanno il presidente di “Mani libere” Alessio Cassano, la coordinatrice regionale antiracket Maria Teresa Morano, la vedova Maria Avolio, il figlio Pierluigi Ferrami, la sorella Franca Ferrami, in condivisione con il prefetto di Cosenza Paola Galeone, il questore di Cosenza Giovanna Petrocca, il referente regionale di Libera don Ennio Stamile e i rappresentanti delle forze dell’ordine. Ci saranno anche gli alunni dell’istituto comprensivo “G. Cistaro” di Guardia che hanno partecipato al primo concorso di poesia dedicato all’imprenditore assassinato.