Roberto Violetta Calabrese non è mai stato un boss della ’ndrangheta. Si è tuttavia sempre mosso agevolmente negli ambienti criminali forte della sua capacità di concludere “affari”. Finito nei guai, ha poi deciso di vuotare il sacco con i magistrati della Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro che l’hanno proposto, con alterne fortune, come teste di accusa in numerosi dibattimenti celebrati nel Cosentino. Ieri il pentito, destinatario di gravi intimidazioni dopo l’inizio della collaborazione, è stato chiamato a deporre nel processo che vede imputati in Tribunale (presidente Salvatore Carpino) gli ex sindaci e componenti della giunta municipale rendese. In dibattimento, rispondendo alle domande del procuratore Pierpaolo Bruni, ha confermato di aver mantenuto rapporti con Adolfo D’Ambrosio, esponente della criminalità organizzata e legato al boss ergastolano, Ettore Lanzino. Nel descriversi ha detto di essere detenuto da un mese in isolamento e di aver cominciato a collaborare nel 2013. Ha quindi aggiunto di non aver mai fatto parte di alcuna cosca ma di aver mantenuto stabili contatti con personaggi di rilievo come Francesco Patitucci e i fratelli Di Puppo, gravitanti su Rende. L’uomo ha ammesso di aver conosciuto D’Ambrosio in questo giro, ricordando poi al Tribunale di aver pure esercitato il delitto di usura insieme a Luisiano Castiglia. Il colaboratore, a questo proposito, ha precisato che lui e Castiglia si facevano dare i soldi da investire nello “strozzo” da Patitucci. «Una volta conosciuto Adolfo D’Ambrosio» ha quindi precisato Violetta Calabrese «ebbi da questi una richiesta: eravamo nel 2011 e mi chiese di trovare dei voti per l’onorevole Principe “così fai una cortesia” mi disse “a Ettore Lanzino”». Il colloquio avvenne all’interno di un bar e D’Ambrosio gli fece, in quella occasione, cenno ai vantaggi che aveva avuto dall’ex parlamentare. Quali? «La concessione di un bar e l’assunzione di Lanzino all’interno di una cooperativa di lavoro. E io per mostrarmi accondiscendente alla richiesta dissi che ero disponibile a dar loro dei ragazzi per l’affissione dei manifesti. D’Ambrosio mi disse di non preoccuparmi perché c’erano già dei ragazzi della cooperativa impegnati in questa direzione». Il pentito ha poi detto che per i D’Ambrosio «Principe era un idolo, perché avevano cominciato a stare vicino a lui con il padre. Il papà di Adolfo D’Ambrosio, Francesco, era un fedelissimo, di Cecchino Principe e, poi, lo sono diventati loro di Sandro». Roberto Violetta Calabrese è stato quindi lungamente interrogato dall’avvocato Franco Sammarco, difensore di Sandro Principe, che ha fatto emergere una serie di contraddizioni nelle dichiarazioni rese. Si torna in aula il 31 marzo.