Sindacalisti e operai dovevano stare muti. I diritti dei lavoratori erano cartastraccia nelle aziende che gravitavano nell’universo economico della famiglia Forastefano. L’unica legge in vigore era quella non scritta, ma promulgata all’occorrenza e declamata a voce – con formule più o meno arcaiche – dai diretti interessati. Nelle carte dell’inchiesta denominata “Kossa” – coordinata dal capo della Procura antimafia Nicola Gratteri, dall’aggiunto Vincenzo Capomolla e dal sostituto Alessandro Riello – ci sono due episodi che raccontano come venivano intessute le relazioni sindacali e ricomposte le rivendicazioni dei lavoratori.
In un’intercettazione ambientale, le microspie dei poliziotti della Squadra mobile – diretti dal vicequestore Fabio Catalano e dal commissario capo Giuseppe Massaro – registrano la voce di Pasquale Forastefano che impartisce, con un vocabolario forbito e gravido di minacce, una serie di regole a due operai che non si erano recati al lavoro per protestare contro la mancata corresponsione del salario. È Luca Talarico – secondo quanto emerge dalle carte dell’inchiesta – a condurre i due operai al cospetto del reggente del clan.
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