La ricchezza doveva essere sottintesa. Si doveva percepire sì, ma non vedere in modo chiaro. E soprattutto non doveva essere riconducibile alla “famiglia”. Era ossessionato dalle confische Pasquale Forastefano. Il reggente del clan sibarita viveva col timore che da un momento all’altro lo Stato potesse aggredire il patrimonio della ’ndrina. Bisognava trovare una soluzione a quello che non era un problema qualsiasi ma “il” problema per antonomasia. Ricchezza vuol dire potere. Ma al contrario di quest’ultimo, che doveva essere manifesto, roboante, evidente, la ricchezza la si doveva occultare. L’esponente del clan sibarita non aveva intestato a suo nome neanche l’auto. Il suv Bmw sul si spostava era intestato a un famigliare di Antonio Antolino, uomo di fiducia e impiegato nell’ufficio di Sibari dell’Alma spa, la società di lavoro interinale, con sede a Corigliano Rossano, che sarà al centro d’una serie di truffe. Le aziende a Luca Talarico. Quest’ultimo, già proprietario di una ditta agricola, aveva la faccia pulita e una discreta credibilità. A lui – da quel che emerge dalle carte dell’inchiesta denominata “Kossa” e coordinata dalla Procura antimafia di Catanzaro – Pasquale Forastefano e Domenico Massa affideranno la gestione delle aziende agricole che poi serviranno non solo a produrre beni e capitali più o meno legali, ma anche a portare a termine una serie di truffe, sia all’Inps che all’Alma spa.
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