Ferdinando Chiarotti seduto sulla solita panchina si godeva i timidi raggi di sole che, bucando le nubi, rendevano quel giorno d’inverno meno freddo del solito. La vita da pensionato, a Strongoli, gli consentiva di aspettare l’incedere delle ore senza particolare apprensione. E quel giorno il tempo scorreva lento, come sempre. D’improvviso udì il rombo di vetture e un susseguirsi di piccole esplosioni: volse lo sguardo verso la zona da dove proveniva tutto quel frastuono ma non ebbe il tempo di capire. I proiettili incandescenti esplosi dalle armi a ripetizione lo falciarono. I sicari della ’ndrangheta stavano compiendo la loro missione di morte e il pensionato era solo un “danno collaterale”. Sul selciato stradale di via Miraglia rimasero, con lui, senza vita, Salvatore Valente, Massimiliano Greco e Otello Giarratano. Il “commando” volò via veloce, com’era arrivato sparando pure contro una pattuglia di carabinieri.. La strage era compiuta. Correva il 26 febbraio del 2000. La vicenda suscitò lo sdegno dell’opinione pubblica nazionale e la Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro, mise in campo le migliori energie investigative per venire a capo dei fatti. Il pubblico ministero Sandro Dolce - oggi in servizio alla Dna - istruì l’indagine e il processo gettandosi anima e corpo alla ricerca dei responsabili. La svolta arrivò dalle confessioni fatte da un ventinovenne castrovillarese, Cosimo Alfonso Scaglione, un personaggio all’epoca poco noto alle forze dell’ordine. Scaglione rivelò d’aver partecipato all’agguato e tirò in ballo come esecutori Franco Abbruzzese, capo della criminalità nomade di Cassano e Nicola Acri, futuro boss di Rossano, detto “occhi di ghiaccio”. Leggi l'articolo completo sull'edizione cartacea di Gazzetta del Sud - Cosenza