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Sibari, “Don Peppino” morì nell’aula del Tribunale di Catanzaro

Il padrino aveva fondato il locale di ‘ndrangheta ed era stato legato a Paolo De Stefano, Franco Pino e Raffaele Cutolo

Giuseppe Cirillo

L'immortale. Giuseppe Cirillo ha sempre fatto parlare di sé. La ragione? Entrò di diritto a far parte della storia criminale della Calabria settentrionale. Come? Sbaragliando gli avversari e diventando il capo incontrastato per più di vent’anni del “locale” di Sibari che controllava ogni centimetro di territorio da Cassano fino a Cariati, passando per Trebisacce, Castrovillari, Altomonte, Francavilla, Villapiana, Corigliano, Rossano, Mandatoriccio fino a Roseto Capo Spulico. Fu lui a dare la dignità di cosca mafiosa a un gruppo di delinquenti fino al suo arrivo divisi in piccole e insignificanti "bande" specializzate nelle estorsioni e nei furti. Cirillo arrivò sulla foce del Crati, a metà degli anni Settanta, forte dell'appoggio di Francesco Spina, inteso come l'«Avvocato», uomo d'onore legato al boss reggino Ciccio Canale. “Don Peppino” realizzò insediamenti produttivi e commerciali, costringendo gli imprenditori della zona a subire in silenzio la sua invadenza. Chi osava ribellarsi veniva severamente “punito”. Con Spina e Canale costituì il “locale” di Sibari, un'organizzazione criminale che godette subito dei favori della cosca De Stefano di Reggio Calabria e della Nuova Camorra organizzata di Raffaele Cutolo. Cirillo e il cognato, Mario Mirabile, riuscirono a diventare in breve tempo, interlocutori privilegiati delle due più potenti consorterie delinquenziali del Meridione. E quando i coriglianesi guidati da Santo Carelli cercarono di scalzarlo, il padrino tentò di reclutare uomini di Cosa nostra siciliana per risalire la china. Uomini che aveva conosciuto in carcere ma che non gli furono poi utili. “Don Peppino” rimase l'influente “mammasantissima” della Sibaritide sino al 1995, quando, ormai sconfitto, decise di lasciare la «vita maledetta» e svelare ai giudici della Distrettuale segreti e misteri delle organizzazioni criminali locali. Il cognato, Mario, era stato assassinato a Corigliano, cinque anni prima, mentre era fermo in auto davanti a un semaforo. Non c’è tutt'oggi processo celebrato nel Cosentino contro le organizzazioni mafiose in cui non si faccia cenno al capobastone che era diventato il “signore” di una delle aree più ricche della Calabria. “Don Peppino” morì in un'aula del palazzo di giustizia di Catanzaro, il 24 maggio del 2007. Finito in galera per scontare una condanna definitiva a 14 anni di reclusione, Cirillo era comparso davanti al Tribunale di sorveglianza per reclamare la sospensione della pena per motivi di salute. Da tempo, infatti, soffriva di una grave forma di cardiopatia. Nel suo ultimo giorno di vita terrena ebbe in dibattimento solo il tempo di dire “Guardate che sono malato per davvero” prima di accasciarsi senza vita davanti ai giudici. Accanto gli è sempre rimasta la moglie, Maria Luigia Albano, detta “donna Gina”. La signora Cirillo era l’unica persona ad avere un vero ascendente sul marito ed era così rispettata da boss e gregari che veniva spesso indicata come “la padrona”.

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