C’è un prima e un dopo nella storia criminale della Sibaritide. La “conversione” di Nicola Acri alla religione dello Stato, la scorsa primavera, ha tracciato una profonda linea di demarcazione tra i due periodi. Da quando il boss quarantatreenne ha iniziato a illustrare ai magistrati della Dda di Catanzaro i meccanismi e i segreti di quella genealogia del male che per anni ha asfissiato il vasto territorio ionico, in questo lembo della Calabria tremano pure le pietre miliari e i guard-rail della Statale 106. La genuinità dei racconto del boss ergastolano s’intuisce da quel poco che s’è avuto modo di conoscere attraverso i primi verbali dell’interrogatorio che – benché omissati in molte moltissime parti – sono stati depositati nei mesi scorsi presso la Corte d’appello di Catanzaro nell’ambito del processo d’appello dell’inchiesta “Stop” condotta dalla procura distrettuale di Catanzaro per ricostruire il ventaglio di buona parte delle attività illecite della consorteria rossanese nota ai più come cosca Acri-Morfò.
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