Più che il Covid, in Calabria preoccupa lo stato di salute dei servizi assistenziali. Star male in questa nostra terra è diventato un castigo, una maledizione. Nelle corsie, ormai, il confine tra vita e la morte è diventato impercettibile. Si può entrare da vivi e uscire da morti nonostante l’impegno di quei pochi medici e infermieri che fanno spesso miracoli per salvare i pazienti pur avendo a disposizione pochissime risorse. Certo, la pandemia ha finito per mostrare il fianco scoperto della sanità locale con quei pochi ospedali sopravvissuti alla follia delle sforbiciate del piano di rientro (che ha avuto l’effetto di dilatare i confini del disavanzo con spese che sono aumentate e risparmi che non si sono concretizzati) che sono diventati una bolgia senza senso. I pronto soccorso sono diventati dei covi di rabbia dove si può stare in coda anche per giorni in attesa che si presenti qualcuno in camice bianco a dare conforto a chi sta male. Il virus ha trasformato la prima linea dell’“Annunziata”, in particolare, in un non-luogo con gente ammassata ovunque e in quegli spazi angusti la malattia diventa, in assenza di privacy, coinvolgimento pubblico. Nonostante gli sforzi, pochi sanitari si muovono in quei labirinti di dolore tra corpi schiacciati dalla sofferenza e dall’angoscia. Il rischio è quello d’arrivare tardi ma la colpa non può essere dei medici. Ieri, ad esempio, nel Dea sono stati registrati altri 3 ingressi con tampone positivo. Leggi l'articolo completo sull'edizione cartacea di Gazzetta del Sud - Cosenza