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San Giovanni in Fiore, parla l’ultimo superstite della tragedia di Mattmark

La diga di Mattmark dove persero la vita anche 7 operai florensi

Cinquantasette anni fa esatti si consumò l’ultima tragedia dell’emigrazione italiana. A Mattmark, in Svizzera, una valanga di oltre 2 milioni di metri cubi di ghiaccio travolse e seppellì baracche, officine, mensa compresa. Morirono sul colpo 88 lavoratori, di cui 56 italiani e di questi 7 erano di San Giovanni in Fiore: Giuseppe Audia, Gaetano Cosentino, Fedele e Francesco Laratta (padre e figlio ventenne), Bernardo Loria, Antonio Talerico, e Salvatore Veltri (sposo da un mese). Trascorsero più di 6 mesi per recuperare l’ultima salma. La provincia di Belluno (che aveva già “pagato” con 17 vittime la catastrofe del Vajont) fu la più colpita, insieme all’antica San Giovanni. E San Giovanni non dimentica: a Mattmark (2000 metri di altezza) si lavorava sempre. Sette giorni su sette.
Fu una corsa “di progresso” per costruire la diga di grande d’Europa. Erano le 17 e 15 del 30 agosto del 1965, quando la frana scivolò a valle e fu l’inferno. L’autorevole penna di Dino Buzzati dopo qualche giorno ebbe a scrivere: «Non c’è più speranza per i sepolti vivi di Mattmark»; poi il commento sull’“amara favola” dell’emigrazione connessa alla disgrazia della frana. Quella di Mattmark fu una sciagura che nella cittadina ha lasciato il segno, ma che “spiega” pure come l’emigrazione consentì ad emanciparsi, a costruirsi una casa, e mantenere i propri figli agli studi. Generazioni di uomini che diedero tutto per la propria famiglia. Si viveva in accoglienti baracche alle falde delle montagne, ricorda l’ultraottantenne Giovanni Mosca, ormai l’ultimo superstite di Mattmark, che in seguito lavorò pure alla costruzione di altre 2 dighe: Emosson e Gigerward, prima di rientrare definitivamente a San Giovanni, guadagnandosi tre medaglie: ognuna delle quali ritrae l’invaso completato.

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