Il capobastone ha una memoria di ferro. Per venticinque anni ha dominato la scena criminale del Cosentino. Una sua parola bastava per far finire sottoterra chiunque; da lui dipendevano schiere di criminali pronti a tutto; a lui toccava disegnare le strategie d’infiltrazione della ’ndrangheta nel mondo imprenditoriale ed era sempre lui a tessere abilmente trame con il potere. Eppure il potente e ineffabile boss Franco Pino della morte violenta del calciatore rossoblù Donato Bergamini non ha mai saputo nulla. L’idolo della tifoseria bruzia, fino alla riapertura delle indagini decisa dalla procura di Castrovillari, per il padrino era rimasto vittima d’un suicidio. Pino lo ha detto ai magistrati in sede di indagini preliminari e l’ha ripetuto, ieri mattina, davanti alla Corte di assise di Cosenza (presieduta da Paola Lucente; a latere Marco Bilotta). Non si trattava di un crimine maturato in contesti mafiosi e nessuno gliene chiese conto. «Quello che so è per sentito dire. Ho sentito sempre parlare di suicidio dal 1989 al 1995. Quando è successo il fatto io non ero nemmeno qui. Ero a Milano ed ero latitante Se avessi saputo qualcosa» ha spiegato ai giudici «l’avrei detta come ho detto tantissime altre cose». Pino collabora con la magistratura da quattro lustri e ha deposto in decine di processi in Calabria, Sicilia, Campania e Lombardia. Chiamato a testimoniare non ha mai dimenticato un nome proprio o un cognome delle persone con cui ha trattato di delitti, estorsioni e affari illeciti. Leggi l'articolo completo sull'edizione cartacea di Gazzetta del Sud - Calabria