Da una parte c’è la storia principale, quella dello spaccio di droga, quella che la Procura bruzia ha scritto, in quasi due anni d’indagine, con i resoconti degli investigatori della squadra mobile. Dall’altra, come tanti affluenti che alimentano l’unico corso d’acqua, ci sono una miriade di rivoli in cui nascono e crescono infinite microstorie che, prese a sé, raccontano le quotidiane miserie – non solo economiche – dei protagonisti di questo romanzo criminale infarcito di droga, estorsioni, debiti, minacce e pestaggi a volte solo annunciati e molte altre puntualmente eseguiti. E da tutto questo marasma, da questo turbinio di soldi, piccoli spacciatori, dosi da con segnare e da consumare e debiti che spesso non si possono onorare, emerge uno spaccato famigliare che inquieta e offre uno, dieci, cento mille spunti di riflessione d’una storia – quella dell’inchiesta denominata “Pressing”, che ieri mattina ha portato alla notifica di venti misure cautelari – apparentemente uguale a tante altre. C’è una telefonata, una in particolare – intercettata dai poliziotti della mobile – che dura un’eternità e nella quale si condensa il dramma d’una famiglia costretta a convivere con un figlio tossico. Da un capo del telefono c’è il padre d’un ragazzo e dall’altro Stefano Casole, di 38 anni, di Casali del Manco, presunto piccolo pusher (innocente fino all’accertamento definitivo dei fatti che gli vengono contestati) che vanta un credito di circa quaranta euro. Dopo aver tentato invano di recuperarli dal diretto interessato, Casole decide di telefonare al famigliare credendo di trovare “giustizia”. La risposta che ne riceve è inquietante, spiazzante, provocatoria, ma anche intensa e d’una crudeltà che prova solo chi è all’apice della disperazione. «Ammazzalo mio figlio, ammazzalo: se lo fai c’incontriamo e ti pago pure un caffè». Leggi l'articolo completo sull'edizione cartacea di Gazzetta del Sud - Cosenza