Bisognerebbe riavvolgere il nastro e rivederlo dal principio il film raccontato dall’inchiesta denominata “Pressing” che l’altro ieri s’è chiusa con la notifica di venti misure cautelari. Il copione – scritto in poco meno di due anni dai poliziotti della squadra mobile con la regia della Procura bruzia – ha messo in scena, ha puntato i riflettori sulla trama principale, quella dello spaccio di droga, e per molti versi ha lasciato sullo sfondo – raccontandole in modo incidentale – le tante microstorie che oscillano tra il tragico l’osceno e mettono in evidenza una miriade di povertà e miserie umane al punto che si ha la sensazione che proprio lo spaccio delle sostanze stupefacenti, in certi passaggi delle pagine dell’inchiesta, rappresenti, per paradosso, un fatto secondario, incidentale. La droga scorre a rivoli in città, nell’area urbana ed extraurbana. Sono le piccole dosi che prese nel loro insieme danno la sensazione che sia un bel po’, che ne giri tanta. Perché i protagonisti, presi a sé non maneggiano, poi, grandi quantità di sostanze. Nessuno di loro – atteso che debbano tutti intendersi innocenti fino al definitivo accertamento dei fatti che, a vario titolo, gli vengono contestati – ha l’aria del trafficante con la barca nel porto di Cetraro, il Rolex d’oro sul polsino e il Suv da oltre ottantamila euro. Smistavano solo piccole quantità e spesso diventava anche anche difficile distinguere chi era il pusher e chi il tossico, perché in molte occasioni i ruoli apparivano coincidenti. Le pagine dell’indagine, infatti, tra le altre cose, cristallizzano una serie infinita di cessioni intranee al gruppo dei venti indagati. La consumano e la vendono la droga. La circostanza emerge da un’intercettazione dell’incontro tra Stefano Casole e Alex Serafini. La cimice è installata nell’auto di uno dei due indagati e entrambi parlano a ruota libera. Discutono dell’acquisto della roba. «Ma tu soldi ne hai?» chiede Casole. Serafini lo rassicura. E l’altro ribatte: «Dai che ora vediamo per questa erba, non ne facciamo movimenti di coca». Poi nel discorso spunta fuori un certo «zio Paolo», un fornitore di «coca» che però a quanto pare non vuole più avere niente a che fare con Stefano Casole. Quest’ultimo, infatti, racconta a Serafini che «zio Paolo» gli ha «chiuso la porta: ha paura per quello che faccio. Ha detto a un mio amico di tenermi lontano perché dove ci sono io ci sono i guai. Ma io – spiega Casole – non gli devo dare niente, la verità è che la roba gliel’ho sempre pagata». Giorni dopo Serafini s’intrattiene in auto con Antonio Morrone e discutono di «alzare qualche soldo». Parlano dell’acquisto di alcune dosi e intanto ne testano, «compà ti faccio fare na botta», qualche campione.
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