C’era una volta la festa dei lavoratori, una liturgia che oggi è ridotta a una banale convenzione in mezzo a report sempre più vuoti. Resta pochissima acqua nei pozzi occupazionali, prosciugati da una guerra che si è affacciata all’improvviso come una febbre maligna nella delicata transizione post-pandemica. Nel Cosentino, ormai, si campa alla giornata con quello che si riesce a portare a casa. Si sopravvive alla fame anche in quelle famiglie dove fino a qualche anno fa pane e tranquillità non mancavano mai. Del resto, più che le cifre è la realtà quotidiana a svuotare di contenuti il Primo maggio che sarà celebrato tra dieci giorni. Colpa della desertificazione imprenditoriale che attraversa da un angolo all’altro la provincia. Qui, più che altrove, lo sviluppo tradito mostra i tanti scheletri di un progetto industriale che in pochi anni si è progressivamente sbriciolato, fino a scomparire. Un modello di crescita schiacciato dalla crisi che ha inghiottito risorse pubbliche e speranze occupazionali. Uno dopo l’altro sono spariti i poli produttivi che avevano portato il pane alla gente che viveva tra il Pollino e la Sila, tra lo Jonio e il Tirreno. Nel tritacarne sono finiti colossi aziendali come Legnochimica, Gtc, Polti, Marlane e via di seguito tutte le altre aziende che avevano scritto capitoli importanti nello sviluppo di questa provincia. Erano le nostre “Fiat” ma sono state cancellate dalla crisi. Una carneficina che ha decimato il popolo degli occupati. Una mattanza che ha spinto l’economia cosentina sul bordo del crac. Un fenomeno che ha inaridito il tessuto imprenditoriale locale rimasto, ormai, con pochissimi germogli. E le possibilità occupazionali si riducono fino a scomparire. A Cosenza e nella sua sterminata provincia, la crescita non è un valore positivo, ormai, da tempo immemorabile.
Report Confartigianato
Il lavoro che un tempo non era solo una scelta ideologica o morale ma un diritto sacrosanto necessario per sopravvivere, oggi è ridotto a un privilegio. Nel Cosentino, i verdetti statistici sono impietosi. La fotografia scattata dall’Ufficio studi di Confartigianato imprese col report “Primavera 2023: tendenze, cambiamenti e incertezze” all’interno della ventiquattresima edizione del rapporto “Economia, congiuntura e Mpi” presentato lunedì scorso, conferma l’ormai irreversibile processo di desertificazione occupazionale in corso da anni in ogni angolo di questo nostro territorio. Tra il 2019 e il 2022, il Cosentino ha perduto ben 8mila occupati (con una lieve ripresa nel saldo tra il 2021 e il 2022 di 3mila occupati). Attualmente, il totale dei lavoratori occupati nelle imprese artiginali, comprese quelle del settore agricolo, è di 197mila unità. Il contingente più corposo è, naturalmente, quello dei servizi che, nel 2022 ha garantito il pane a 147mila famiglie di addetti tra commercio (41mila occupati) e alberghi e ristoranti (106mila). L’unico settore che ha mostrato ulteriori segnali di crescita è stato quello delle costruzioni che ha aggiunto altri mille occupati negli ultimi quattro anni (grazie, evidentemente, alla cantierizzazione diffusa con i Superbonus) raggiungendo, complessivamente, i 15mila addetti. Anche il manifatturiero non cresce più e dal 2019 ha perso raggiungendo i 12mila lavoratori coinvolti.
Allarme giovani
L’occupazione nel Sud del Sud dell’Italia resta confinata in recinti inaccessibili soprattutto ai più giovani che dopo il “parcheggio” all’università scoprono il dramma dell’incollocabilità. Un male incurabile che si risolve in un solo modo, ormai, prendere la valigia e partire. L’alternativa è pericolosa perché l’unica quota di mercato che sopravvive alla crisi è quella prodotta dal lavoro nero. L’occupazione senza contratto è il sistema più facile per sbarcare il lunario nel Cosentino, l’unica alternativa che si offre alla fame. C’è chi accetta il ricatto, chi, invece, con dignità, lo rifiuta e va via.