Le accuse contro se stesso, i suoi famigliari, gli ex compari e contro il boss Roberto Porcaro erano solo “chiacchiere”. Erano solo chiacchiere, o se si preferisce – alla luce di quanto ha dichiarato ieri mattina in aula – montagne di bugie, elucubrazioni, quelle che Danilo Turboli, (ex) pentito semi-eccellente dei clan confederati cosentini, ha raccontato per mesi ai magistrati della Dda di Catanzaro. Dopo aver riempito pagine e pagine di verbali svelando i segreti, o presunti tali, del gruppo criminale d’appartenenza, i meccanismi interni, gli affari, il traffico e lo spaccio della droga, l’usura, e il racket delle estorsioni, ieri mattina – nel corso del processo “Testa di serpente – ha detto al pubblico ministero, non solo «d’essersi inventato tutto», ma anche di non voler più collaborare. Una dichiarazione che ha aperto un abisso e ha messo tra parentesi tutti i fatti – quelli che egli stesso aveva condito di particolari, alcuni si presume pure abbastanza inquietanti – raccontati ai magistrati. Fatti, che chiamavano in correità non solo i picciotti e il reggente del clan ma anche la sua stessa famiglia di sangue. Benché i verbali circolati nei mesi scorsi fossero costellati da omissis, emergeva con una certa evidenza una trama con cui l’ormai ex pentito intrecciava gli affari della sua famiglia di sangue con quelli della famiglia criminale. Così nella storia entrarono di diritto il fratello Alberto e la cognata. Di entrambi si parlava a proposito di una vicenda di usura. «Mio fratello, Alberto Turboli – raccontò il pentito – nel 2018 aveva contratto un debito, di oltre quarantamila euro, con Roberto Porcaro». Un debito a strozzo. E così per rientrare dei soldi «mio fratello – raccontò il collaboratore – si mise a prestare, a sua volta, denaro a usura nella piena consapevolezze e condivisione di Roberto Porcaro, il quale avallando questa attività illecita si assicurava il recupero del suo credito». Leggi l'articolo completo sull'edizione cartacea di Gazzetta del Sud - Reggio