Cosenza

Lunedì 23 Dicembre 2024

Santa Sofia d’Epiro, la rete dei capannoni gestita dai cinesi

Il “laboratorio” criminale calabrese e la rete segreta di “fabbriche” di marijuana. La Sibaritide conferma d’essere l’area della regione dove vengono sperimentati “modelli” delinquenziali innovativi. Era stato così vent’anni fa quando albanesi, zingari e ‘ndranghetisti si misero in società per scambiarsi denaro, armi e droghe di vario genere e potrebbe accadere adesso con l’utilizzo di manodopera cinese per installare e curare piantagioni di stupefacente leggero, lavorarne la produzione in strutture allestite lucrando i contributi della vecchia e per nulla rimpianta (se non dai faccendieri) legge 488. Le indagini della polizia culminate nell’arresto di cittadini provenienti dal paese della Grande Muraglia conferma che qualcosa di strano e di nuovo sta accadendo nella zona ch’era un tempo il regno di Santo Carelli, detto “Santullo” che agli schipetari prima e ai “compari” con gli occhi a mandorla ora, nulla mai avrebbe concesso. Non si preparano alla commercializzazione 241 chili di marijuana nella zona di influenza di una città come Corigliano Rossano dove per droga si muore quando non si hanno le giuste “autorizzazioni” per immetterla sul mercato. Una zona nella quale chi mette il naso nel mondo degli stupefacenti rischia di fare una brutta fine come dimostra l’assassinio di Pasquale Aquino, avvenuto lo scorso anno a Schiavonea e come, ancor prima, aveva fatto ben capire la esecuzione a colpi di kalashnikov di Pietro Greco, 39 anni e Francesco Romano, 44, trucidati in un agrumeto di contrada “Apollinara” di Corigliano Rossano nel luglio del 2019. Le due vittime furono “fucilate” con i mitragliatori e poi finite con colpi di pistola calibro 9 per 21 alla testa. E che i cinesi abbiano cominciato una joint venture con la criminalità calabrese è confermato da recenti inchieste condotte da due diverse procure distrettuali italiane. Si tratta della inchiesta “Eureka” della Dda di Reggio Calabria e della “Aspromonte-Emiliano” della Dda di Bologna. Le carte giudiziarie rivelano come i malavitosi orientali – famosi per avere una mafia potentissima e secolare: le “Triadi” – siano stati utilissimi per riciclare montagne di denaro frutto del traffico di droga. Come? Attraverso il lavoro di “corrieri” silenti e veloci capaci di trasferire soldi liquidi da un angolo all’altro d’Europa e, soprattutto, grazie a un antico sistema che ricorda certe consuetudini in uso nel vecchio continente nel Medioevo, che si basavano sull’utilizzo di “lettere commerciali” rilasciate a garanzia di crediti e debiti. I sinologi ingaggiati dalla magistratura inquirente calabrese e emiliana per decriptare le conversazioni, l’hanno chiamato “fei ch’ien” e funziona a meraviglia. Gli ‘ndranghetisti consegnano le ingenti somme di denaro a un terminale delle organizzazioni asiatiche attivo in Italia o direttamente all’estero – i cinesi sono infatti dappertutto – ricevendo in cambio una banconota con su scritto un codice alfanumerico. La banconota può essere successivamente presentata in qualsiasi zona del pianeta dove operano le strutture gestite dai cinesi inserite nel sistema per ottenere la consegna immediata del denaro in contanti. Ingegnoso ed efficace. Leggi l'articolo completo sull'edizione cartacea di Gazzetta del Sud - Cosenza

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