“Al posto sbagliato, nel momento sbagliato”, 35 anni dopo il delitto Lanzino: l'inchiesta fantasma e la zampata del diavolo
Basterebbe restare a parlare un'ora con mamma Matilde per farsi un'idea dell'omicidio Lanzino. All'inchiesta dedicherebbe meno del previsto e, se possibile, riempirebbe il tempo a propria disposizione illustrando i risultati raggiunti con la Fondazione e con il Centro antiviolenza. E non perché si sia arresa o vorrebbe mettere la parola sulla vicenda per sfinimento. Mamma Matilde Spadafora è già passata oltre, ormai da un pezzo. Nei suoi occhi non c'è rassegnazione ma determinazione. La stessa che si impone di trasmettere a ogni donna in difficoltà che si avvicina a lei. “Insieme ce la possiamo fare, fidati di me”. Finché il Signore gli ha offerto la forza di combattere, di andare oltre, anche papà Franco Lanzino ha rappresentato un porto sicuro, un conforto costante, dedicandosi anima e corpo a Fondazione e Centro. Ora che la sua spalla destra non c'è più, mamma Matilde sa che il carico di responsabilità aumenta, ma non è sconfortata. Apre l'album dei ricordi, mamma Matilde. Contiene il prima - ovvero la storia di Roberta, dai primi anni di vita, che servono a raccontarci com'era fino a quel maledetto 26 luglio del 1988, quando sulla strada che porta verso il mare ha trovato i suoi assassini - ma anche il dopo, intriso di bellezza collaterale, di capacità di reagire contro il dolore più grande al mondo: sopravvivere a una propria figlia. Ecco perché sono nati Fondazione e Centro: affinché una morte così assurda non venisse ricordata solo in udienze che non hanno portato a nulla o nel giorno del triste anniversario. Gli studenti cosentini e rendesi (non solo) della Primaria e della Secondaria, tutti i cicli degli ultimi 30 anni, hanno conosciuto Roberta attraverso le parole di Matilde e Franco. Di Franco e Matilde. Hanno conosciuto la storia di una ragazza piena di sogni che ha avuto l'unica “colpa” di sbagliare strada nel momento sbagliato. Una vicenda che è stata insegnata per mettere in guardia dai pericoli della vita. E per dare forza alle donne succubi dei propri partner. Il resto è cronaca, come in occasione di ogni maledetto 26 luglio.
La testimonianza del giornalista Arcangelo Badolati
La firma dell'assassino. Basterebbe quella per mettere la parola fine a un cold case surriscaldato per 35 anni. Ma mai abbastanza, evidentemente, perché la parola fine è lontana. Probabilmente non verrà mai scritta. Almeno processualmente. Il perché lo spiega il caposervizio di Gazzetta del Sud di Cosenza, Arcangelo Badolati: “Si tratta di un omicidio brutale e casuale, che avviene senza preordinazione. Il processo ha avuto più vittime: oltre a Roberta anche Franco e Matilde, i genitori, che sopporteranno udienze e sentenze. Ogni volta che si recano in tribunale il loro dolore si rinnova. Sembra una storia segnata dalla zampata del diavolo: ogni volta c'è qualcosa che njon ava al proprio posto. In questo processo c'è la pistola fumante, la prova regina che può consentire agli inquirenti di risolvere il mistero: sul corpo della ragazza viene isolato il liquido seminale lasciato dai violentatori assassini. Ma nel 1988 questo tipo di analisi in Italia non si fa e il materiale biologico viene spedito in Gran Bretagna: l'operazione provocherà solo danni perché quanto raccolto diverrà inutilizzabile. Nel 1995, poi, il colpo di scena: perché parla il più temuto boss di Cosenza, Franco Pino, un criminale a tutto tondo, che ha legami con le grandi famiglie della Piana e che eleva la 'ndrangheta cosentina al rango di 'ndrangheta imprenditrice. Pino racconta che in carcere avrebbe raccolto una confidenza dallo storico alleato e boss Romeo Calvano secondo cui i nomi degli assassini e violentatori di Roberta Lanzino sarebbero quelli dei Sansone, in particolare Franco, e di un pastore, Luigi Carbone. Le dichiarazioni sono state utilizzate nel 2000 per riaprire il caso, ma Romeo Calvano, essendo un boss e non un pentito, non confermerà quanto dichiarato da Pino. Il colpo di grazia al secondo processo è l'esito dell'analisi del materiale biologico trovato, in seconda battuta, in un pezzetto di terriccio sotto il collo della vittima: un mix di sangue di Roberta e, appunto, materiale biologico. Fatti i raffronti con i Sansone e con gli eredi di Carbone (nel frattempo scomparso per lupara bianca), l'esito è comunque negativo. Anche questo processo si chiude con assoluzioni piene. In sostanza, c'è un codice genetico in possesso della magistratura inquirente di Paola e non si sa a chi appartenga...”.
Le parole dell'avvocato Ornella Nucci
“Sì è lavorato molto male: un'inchiesta non svolta, non si recupera”. Una frase emblematica, pronunciata con un triste sorriso dall'avvocata Ornella Nucci (attuale presidente dell'Ordine cosentino) per spiegare come mai, dopo 35 anni, il delitto Roberta Lanzino non ha ancora un colpevole. Anzi, dei colpevoli. “È stato ampiamente spiegato come fosse impossibile che, nel poco tempo a disposizione una persona sola potesse effettuare una doppia violenza nei confronti di Roberta e contestualmente adagiare il motorino lungo la scarpata. Così come è stato largamente spiegato il perché Roberta non avesse nessun appuntamento: sapeva che ci sarebbe stati i genitori alle sue spalle”. Non sono bastati due processi per certificare la verità. Ma il momento è molto semplice. “Si sono verificati molti errori, tante cose sono sfuggite di mano subito e poi è difficile recuperare. Poi ho notato che c'è stato uno scollamento tra i lavori dei vari magistrati che si sono succeduti durante il caso. Mi spiace solo che Franco Lanzino, papà di Roberta, è morto senza che venisse fatta giustizia”.