Che fosse stata la cosca Abbruzzese a far sparire Salvatore Di Cicco la famiglia lo aveva intuito sin da subito. Il padre e la famiglia dell’allora 33enne, ucciso dalla ’ndrangheta il primo settembre del 2001 ma fino a pochi giorni fa catalogato come caso di lupara bianca, aveva intuito che si trattasse di una pulizia interna al clan. Il dettaglio emerge nel corso delle intercettazioni effettuate dalle forze dell’ordine nell’ambito dell’operazione Sybaris, un’inchiesta durata tre anni e che aprì uno squarcio sulla storia criminale della Sibaritide dal 1999 all’ottobre 2002. Sull’omicidio hanno fatto luce il Ros e i comandi provinciali di Cosenza e Crotone coordinati dalla Dda di Catanzaro – diretta dal capo dei pubblici ministeri antimafia Nicola Gratteri – arrestando lunedì mattina Rocco Azzaro, esponente di spicco dei clan di Corigliano Rossano, e di Giuseppe Spagnolo e Giuseppe Nicastri personaggi di rilievo del locale di ’ndrangheta di Cirò.
Tra le conversazioni annotate dai militari ce n’è una registrata all’interno del carcere di Vibo Valentia dove era ristretto Damiano Pepe che, secondo gli inquirenti, fino al momento del suo arresto, reggeva proprio le fila dell'organizzazione criminale alla quale appartenevano Di Cicco e la famiglia Abbruzzese, retta sul campo nel periodo della detenzione, dal fratello Eduardo Pepe successivamente assassinato insieme a Fioravante Abbruzzese il 3 ottobre del 2003 a Cassano. È il 15 settembre del 2021, due settimane dopo la scomparsa di Di Cicco, e i familiari fanno visita a Damiano. I congiunti informano il boss di tutte le novità che vi erano sul territorio inserendo anche diversi particolari in merito proprio alla scomparsa/omicidio Di Cicco. Dall’interlocuzione emerge chiaramente come il padre del 33enne di Sibari si fosse recato a casa dei Pepe chiedendo a Eduardo almeno la restituzione del corpo del proprio figlio. «Anche il padre è andato – raccontano – se lo faceva trovare. “Almeno solo il corpo fammelo trovare” ha chiesto».
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