L’esecuzione. Il destino di Alessandro Cataldo, 46 anni, era segnato da giorni. La sua morte era stata decretata durante un’appartata “riunione” tenuta dai maggiorenti che governano criminalmente il territorio. Gente decisa e senza remore. Emessa la sentenza di morte, il “contratto” per chiudere la partita è stato affidato a un “azionista” lesto a usare le pistole: non serviva un grosso calibro, bastava una semiautomatica 7,65. Un’arma “pulita” destinata poi a scomparire per sempre; una “usa e getta” che le forze dell’ordine non troveranno mai.
Il sicario, aiutato da un complice in funzione di copertura, ha monitorato le abitudini della vittima per alcuni giorni: Cataldo conduceva una vita semplice compiendo sempre gli stessi percorsi alla guida d’una Fiat Panda nera. E quando l’altra sera ha lasciato la pizzeria “Zera 81” di via del Porto, l’omicida gli è arrivato alle spalle come un’ombra sinistra. Con un cappellino sportivo con visiera calato sulla testa, la pistola con il colpo in canna stretta nella mano destra, gli è arrivato a passo veloce a meno d’un metro di distanza in una trentina di secondi: il quarantaseienne ha appena avuto il tempo di girare la testa prima che partisse il primo colpo. Ha farfugliato qualcosa e poi è caduto sul selciato: il killer l’ha finito con altre tre pallottole alla schiena e al volto.
L’omicida s’è poi rimesso l’arma alla cintola allontanandosi rapidamente affiancato dal silenzioso “compare” per raggiungere il mezzo scelto per la fuga. All’arrivo dei carabinieri del colonnello Agatino Saverio Spoto e delle ambulanze del 118 Cataldo era già cadavere. Sull’asfalto quattro bossoli e vistose macchie ematiche.
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