Il Papa, le mafie e la scomunica. Cosa è cambiato da quando Jorge Bergoglio ha scomunicato a Cassano i mafiosi? Da dieci anni a questa parte la chiesa ha certamente mostrato un atteggiamento intransigente nei confronti degli ‘ndranghetisti. Ma come è possibile applicare praticamente il pronunciamento di Papa Francesco? Ed ha avuto effetti concreti nel diritto canonico? Lo chiediamo al professore Domenico Bilotti, docente di Diritto ecclesiastico nell’università di Catanzaro. Professore intanto cos’è una scomunica? «La scomunica è una sanzione tipica nella storia delle confessioni religiose, soprattutto in quelle monoteistiche e, segnatamente, cristiane. È prevista, ad esempio, nel diritto della Chiesa ortodossa, nel cui ambito la scomunica è stata spesso l’inizio di divisioni e conflitti interni. Esiste nel diritto delle Chiese evangeliche, che sovente demandano i provvedimenti disciplinari a un organo di giustizia “domestica” (tendenzialmente, chiamato sinodo). Persino l’herem della storia giuridica ebraica ha svolto una funzione simile. La Chiesa cattolica ha a lungo adottato scomuniche distinguendole secondo la gravità della condotta per cui venivano inflitte. A lungo gli scomunicati per i peccati più esecrabili venivano definiti “vitandi”: soggetti da evitare non solo nella vita della comunità ecclesiastica, ma in ogni ambito. Non stupisce perciò che Papa Francesco, in una messa celebratasi nella Sibaritide nel 21 giugno del 2014, abbia espressamente accostato questa pena ai mafiosi. Se la mafia è illecito arricchimento per il tramite di violenza, essa integra in pienezza valori - pratici e organizzativi - chiaramente irreligiosi. La scomunica, per altro verso, è una pena nella più parte dei casi irrogata “latae sententiae”: a differenza delle pene “ferendae sententiae”, che necessitano di un atto formale che le contenga e in definitiva di un ufficio per cui siano disposte, le pene “latae sententiae” operano al mero verificarsi della situazione per cui sono previste». Nel caso dei mafiosi cosa può accadere? «La cosiddetta scomunica ai mafiosi lascia aperta una serie di questioni pratiche e procedurali non secondarie. Cosa garantisce che il disvalore etico diventi norma? E come possiamo concretizzare la norma in fattispecie puntuali? Il pontefice è certo conscio di questi interrogativi, se è stato istituito, presso il Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale, un apposito gruppo di lavoro. La gerarchia ecclesiale stessa sembra divisa. Il prestigioso quotidiano francese “La Croix” - ieri più conservatore, oggi vicino alle esperienze del cattolicesimo democratico sociale - e la Conferenza episcopale tedesca premono perché si giunga presto a una normativa apposita e rapida; la Curia e persino gli episcopati periferici tanto cari al Santo Padre non sono dello stesso avviso. Gioca forse il fatto che negli ambienti più distanti dalla nostra realtà si creda prevalente la natura nazionale e particolaristica - cioè, italiana - del crimine mafioso». E allora Le chiedo: è necessario introdurre, se non un’apposita fattispecie delittuosa, almeno una tipologia tipica di scomunica? Si può davvero dire che il Codice di Diritto Canonico, il Catechismo della Chiesa cattolica e la sua Dottrina sociale siano lacunosi? «Se immaginiamo una situazione giuridica tipica, evidentemente, le tre fonti citate non parlano di scomunica ai mafiosi; se guardiamo all’assiologia del buon cristiano, è altrettanto evidente che in essa non possa esservi spazio per partecipare a organizzazioni mafiose. È stato acutamente detto, ancora, che la Chiesa deve avere atteggiamento il più possibile prudente nella comminatoria palese di scomuniche, soprattutto quando c’è l’opportunità concreta che la morale religiosa possa o essere abusata o, all’opposto, favorire percorsi di emenda, ripensamento critico, trasformazione della persona. Nuoce alla mafia più la scomunica ai mafiosi o che essi scelgano un percorso penitenziale che li sciolga dalle associazioni mafiose, perdipiù ad esse nuocendo tramite la desistenza volontaria, la collaborazione di giustizia, la restituzione dei proventi dei reati? Si noti, infine, una caratteristica tipica nella storia normativa della scomunica. Essa ha a lungo avuto una valenza soprattutto intra-confessionale, cioè tutta proiettata alla natura teologica della comunità ecclesiastica – impostazione preservata nel vigente canone 1331, secondo il quale lo scomunicato, tra le altre cose, non celebra e non riceve sacramenti, né ricopre uffici ecclesiastici. Ipotesi di comminatoria più risalenti – profanazione dell’ostia, violenza contro il Papa, consacrazione episcopale senza mandato pontificio – appaiono ormai antistoriche o almeno residuali. Ed è innaturale accostare ad esse circostanze quali l’aborto o l’affiliazione a logge massoniche, anche perché questa problematica entra nel diritto canonico solo nella modernità. Resta peraltro un punto molto importante: il fedele, a seguito del suo percorso espiativo, può richiedere la remissione. Come si misurerebbe de iure l’idoneità del mafioso scomunicato a esercitare tale diritto?». Bella domanda. Senza risposta.