Con la richiesta delle condanne (buona parte delle quali abbastanza pesanti) nei confronti dei ventotto imputati del processo “Overture” si chiude il secondo capitolo (il primo è rappresentato dal processo “Testa del serpente”) della saga dei clan bruzi. Una saga che vede come punto d’arrivo l’inchiesta denominata “Reset” il cui processo si sta celebrando nell’aula bunker di Lamezia Terme.
C’è un lucido filo di rame che s’attorciglia, s’avvita, attorno al nucleo, al volano magnetico, delle tre indagini antimafia, della Dda di Catanzaro, che hanno squarciato, nell’arco di quattro anni, il velo che teneva al riparo gli affari delle ’ndrine bruzie. Le indagini iniziate con le operazioni “Testa del serpente” nel 2019, proseguite con “Overture” nell’anno successivo e approdate (ma non terminate, si presume) con “Reset” nel 2023, hanno svelato il meccanismo regolatore della criminalità organizzata cosentina. Al di là delle loro peculiarità (e dei loro titoli esoterici) le tre inchieste antimafia hanno permesso di far incastrare, in modo più o meno plausibile, le tessere di un complesso puzzle dal quale appare – in attesa della soluzione degli ultimi due processi – quello che era (e forse continua a essere) il nuovo (e per certi versi addirittura inedito) assetto federativo dei clan operanti nel territorio Cosenza-Rende. Le ipotesi investigative hanno trovato, infatti, conferma sia in tribunale, che nelle dichiarazioni dei pentiti tra i quali compaiono personaggi di una certa caratura criminale come a esempio Celestino Abbruzzese, (nome d’arte: “micetto”) esponente di spicco della famiglia degli zingari denominata “banana”, che fornirà agli inquirenti preziosi dettagli sul monopolio del traffico e dello spaccio della droga in tutta l’area urbana, sulla gestione delle estorsioni, e su due tentati omicidi. Abbruzzese, si presume, abbia fornito elementi anche del “potenziale bellico” a disposizione del clan. Armi, alcune delle quali vennero trovate, a distanza di pochi giorni dal blitz scattato il 14 dicembre del 2019, in un locale d’una palazzina in via Popilia. Dall’indagine – nella quale rimasero coinvolte, a vario titolo, ventidue persone – vennero ipotizzate due circostanze. Per prima cosa si scoprì (e la conferma arrivò nel corso della altre due inchieste) che le cosche cosentine si erano confederate e che il vertice dell’organizzazione era occupato da Roberto Porcaro (braccio destro di Francesco Patitucci) che, in primo grado (col rito abbreviato) venne condannato a undici anni e otto mesi. L’esistenza di una bacinella comune nella quale confluivano tutti i soldi delle attività illecite trovò conferma (non solo dalle dichiarazioni dai picciotti pentiti nei periodi precedenti alle indagini ma) anche dalle dichiarazioni di “micetto”.
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