Cosenza

Domenica 24 Novembre 2024

Il mosaico della 'ndrangheta "confederata" a Cosenza: il finto pentito Robertino Porcaro, Franco Patitucci e l'alleanza tra italiani e zingari

Due tra le figure di spicco della nuova indagine della Dda di Catanzaro che con l'operazione "Recovery" ha inflitto un durissimo colpo alla 'ndrangheta del Cosentino sono Roberto Porcaro e Franco Patitucci. Dallo scorso febbraio Porcaro, componente della direzione strategica delle cosche “confederate” operanti nell’area urbana, è stato assegnato al regime detentivo speciale del 41 bis. Il provvedimento gli è stato notificato nel carcere di Terni dove si trova detenuto. Porcaro, difeso dall’avvocato Mario Scarpelli del foro bruzio, aveva inscenato lo scorso anno l’inizio di una collaborazione con i magistrati della procura antimafia di Catanzaro che, però, non gli hanno dato credito. L’imputato, coinvolto nella inchiesta “Reset”, capita l’antifona, aveva poi dichiarato pubblicamente in aula di non voler seguire il percorso del presunto pentimento tornando regolarmente tra i detenuti reclusi in regime ordinario di alta sicurezza. Per lui, proprio in “Reset”, i pm Vito Valerio e Corrado Cubellotti hanno chiesto la condanna a 20 anni di carcere. Nei suoi ultimi colloqui con i magistrati Porcaro ha parlato di come le consorterie bruzie stessero recentemente tentando un ritorno al passato nello scacchiere criminale regionale. Il pentito aveva spiegato come: «Michele Di Puppo è dopo Francesco Patitucci il più importante riferimento criminale dell'organizzazione di ‘ndrangheta cosentina. È stato solo grazie al suo carisma criminale, ai suoi legami con esponenti di ‘ndrangheta di Rosarno ed alla considerazione che questi avevano di lui, che si è riusciti a riprendere certe questioni di ‘ndrangheta riguardanti le affiliazioni e la riapertura di un “locale” a Cosenza». Roberto Porcaro, in forza dei nuovi “ragionamenti” avviati da Di Puppo, ha cominciato a fare affari con i rosarnesi nel campo della droga. Come? Rifornendosi stabilmente dello stupefacente destinato al mercato cosentino. Un rifornimento di cocaina avviato insieme con gli “alleati” di Amantea e che gli è costato una condanna in primo grado a 20 anni di reclusione. L’imputato, coinvolto nella inchiesta “Reset”, capita l’antifona, aveva poi dichiarato pubblicamente in aula di non voler seguire il percorso del presunto pentimento tornando regolarmente tra i detenuti reclusi in regime ordinario di alta sicurezza. Per lui, proprio in “Reset”, i pm Vito Valerio e Corrado Cubellotti hanno chiesto la condanna a 20 anni di carcere. Francesco Patitucci, in passato e probabilmente ancora a capo della nuova 'ndrangheta confederata di Cosenza, sembra tirare dritto verso un destino quasi ineluttabile. La Corte di assise di appello di Catanzaro (presidente Capitò; a latere Mellace), lo scorso febbraio, ha infatti confermato la condanna al carcere a vita che due anni fa era stata inflitta al boss dell’area urbana dai magistrati giudicati di Cosenza. Con Patitucci (difeso dagli avvocati Michele Di Renzo e Laura Gaetano) è stato condannato (8 anni) pure l’ex capobastone bruzio Franco Pino, assistito dal suo storico legale di fiducia, l’avvocato Vittorio Colosimo. Accolte le richieste del procuratore Camillo Falvo che ha seguito il caso sin da quando si occupava come Pm antimafia della Calabria settentrionale. Il padrino rendese è stato ritenuto dai giudici di seconda istanza responsabile della barbara uccisione di Marcello Gigliotti e Francesco Lenti, due giovani ritenuti dal gruppo Pino-Sena troppo “autonomi” e, quindi, pericolosi. Le vittime vennero trucidate, il 2 febbraio del 1986, dopo essere state attirante in trappola in un casolare della periferia di Rende. Vennero invitati a un pranzo a base di carne e sugo di maiale e si presentarono al desco ignari della sorte che li attendeva. Lenti fu colpito a freddo con due fucilate e quasi decapitato con una falce, mentre Gigliotti venne prima torturato e poi assassinato in un luogo diverso. I corpi dei due “ragazzi” vennero abbandonati tra le montagne dell’appennino paolano dove furono poi ritrovati dai carabinieri.  L’alleanza tra zingari e italiani nella 'ndrangheta cosentina è stata acclarata anche dall’indagine “Testa di serpente”. La richiesta delle condanne (buona parte delle quali abbastanza pesanti) nei confronti dei ventotto imputati del processo “Overture” si chiude il secondo capitolo (il primo è rappresentato dal processo “Testa del serpente”) della saga dei clan bruzi. Una saga che vede come punto d’arrivo l’inchiesta denominata “Reset” il cui processo si sta celebrando nell’aula bunker di Lamezia Terme. C’è un lucido filo di rame che s’attorciglia, s’avvita, attorno al nucleo, al volano magnetico, delle tre indagini antimafia, della Dda di Catanzaro, che hanno squarciato, nell’arco di quattro anni, il velo che teneva al riparo gli affari delle ’ndrine bruzie. Le indagini iniziate con le operazioni “Testa del serpente” nel 2019, proseguite con “Overture” nell’anno successivo e approdate (ma non terminate, si presume) con “Reset” nel 2023, hanno svelato il meccanismo regolatore della criminalità organizzata cosentina. Al di là delle loro peculiarità (e dei loro titoli esoterici) le tre inchieste antimafia hanno permesso di far incastrare, in modo più o meno plausibile, le tessere di un complesso puzzle dal quale appare – in attesa della soluzione degli ultimi due processi – quello che era (e forse continua a essere) il nuovo (e per certi versi addirittura inedito) assetto federativo dei clan operanti nel territorio Cosenza-Rende. Le ipotesi investigative hanno trovato, infatti, conferma sia in tribunale, che nelle dichiarazioni dei pentiti tra i quali compaiono personaggi di una certa caratura criminale come a esempio Celestino Abbruzzese, (nome d’arte: “micetto”) esponente di spicco della famiglia degli zingari denominata “banana”, che fornirà agli inquirenti preziosi dettagli sul monopolio del traffico e dello spaccio della droga in tutta l’area urbana, sulla gestione delle estorsioni, e su due tentati omicidi. Abbruzzese, si presume, abbia fornito elementi anche del “potenziale bellico” a disposizione del clan. Armi, alcune delle quali vennero trovate, a distanza di pochi giorni dal blitz scattato il 14 dicembre del 2019, in un locale d’una palazzina in via Popilia. Dall’indagine – nella quale rimasero coinvolte, a vario titolo, ventidue persone – vennero ipotizzate due circostanze. Per prima cosa si scoprì (e la conferma arrivò nel corso della altre due inchieste) che le cosche cosentine si erano confederate e che il vertice dell’organizzazione era occupato da Roberto Porcaro (braccio destro di Francesco Patitucci) che, in primo grado (col rito abbreviato) venne condannato a undici anni e otto mesi. L’esistenza di una bacinella comune nella quale confluivano tutti i soldi delle attività illecite trovò conferma (non solo dalle dichiarazioni dai picciotti pentiti nei periodi precedenti alle indagini ma) anche dalle dichiarazioni di “micetto”.

leggi l'articolo completo