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“Osservo, ascolto e... scrivo”: i segreti del Premio Sila alla carriera Vivian Lamarque

Intervista alla poetessa premiata a Cosenza. Nascono principalmente così, dalla realtà quotidiana, le ispirazioni dei suoi versi: «L’incipit si presenta sempre da sé, e poi intorno a quello nasce la poesia»

Gli occhi vispi e allegri, l’espressione incantata e placida come l’immaginario collettivo restituisce la figura tipica della nonna, pronta ad accoglierti con un sorriso, un abbraccio, e a dispensarti consigli e fiabe: per i piccoli e il loro universo sognante, per i grandi, e la ricerca di essere persone migliori in un mondo migliore. Incontrare e parlare con Vivian Lamarque restituisce una certezza ineludibile. Non avrebbe potuto essere che un’artista, poetessa e scrittrice.
A Cosenza per una lectio magistralis sul tema, ça va sans dire, “Che cosa è la poesia (secondo Vivian Lamarque)” e perché ha ricevuto il Premio Sila ’49 alla Carriera, uno dei riconoscimenti letterari più storici e noti nel panorama nazionale italiano. «L’ultima raccolta di versi pubblicata da Vivian Lamarque si intitola “L’amore da vecchia”. Ma già la sua prima, uscita oltre 40 anni fa, trattava un tema analogo, ossia l’amore da giovane. Tutto questo a riprova di quanto possa essere costante la presenza di una musa in una tra le maggiori poetesse della sua generazione…». La motivazione dei giurati del Sila rende omaggio a una carriera lunga e densa di opere significative che hanno fatto vibrare cuore e anima di tantissimi lettori. Senza dimenticare che il pubblico della Lamarque continua a comprendere persone di tutte le fasce d’età, dai ragazzini agli adolescenti, grazie al suo impegno come autrice di fiabe originali e traduttrice di fiabe tradizionali, fino a giovani e vecchi, ebbri delle sue arti poetiche. Sì, proprio “vecchi”, una parola che la poetessa milanese usa senza preoccuparsi di esser tacciata come politically incorrect.
“L’amore da vecchia”… la questione anagrafica riesce a rivoluzionare la percezione dei fatti della vita anche nelle sue poesie?
«Da quasi settant’anni, nella mia opera, vita e poesia si sono sempre rispecchiate a vicenda. Ho provato a separarle iniziando a scrivere una storia della mia vita, ma come nelle poesie si infila cocciuta la vita, nell’autobiografia accorrono altrettanto testardi, i versi».
Sono tanti i connotati che colpiscono nei suoi componimenti, quello della semplicità innanzitutto. È uno stile che si è costruita o si tratta di pura spontaneità?
«Come un cantante non sceglie se essere tenore o baritono, così non posso scegliere io la mia voce poetica, ho quella che ho, come il colore degli occhi e dei capelli. La riconosco persino nelle mie prime poesie, scritte a dieci anni: bruttine certo, ma ero già io, specie nell’uso dell’autoironia».
Come nascono i suoi versi…
«Sono una grande “guardatrice” e una “ascoltatrice”. Spesso il guardare inizia dalle finestre di casa mia (esemplari in estinzione, i guardatori dalle finestre, specie al nord). Oppure dai finestrini del treno (anche da lì pochi guardano, spesso persino abbassano la tendina per evitare riflessi sugli schermi dei computer). In “L’amore da vecchia” c’è una sezione intera di Poesie Ferroviarie e altre nuove ne stanno arrivando. L’incipit si presenta sempre da sé, quando gli pare. Poi intorno a quello nasce la poesia che riprenderò a correggere dopo settimane o mesi, mi correggo persino i libri già stampati».
La poesia vive di sensibilità. Di interpretazioni personali dell’autore su esperienze dirette o indirette di sé o altrui…
«Ascolto molto anche le voci, i dialoghi. Del resto, ho passato quasi tutta l’infanzia nei cinematografi, anche gli schermi sono finestre, entravo che era chiaro e uscivo che era buio. Allora non dovevi lasciare la sala al termine del film come oggi. Di tutto questo parlo nell’introduzione alla sezione di poesie cinematografiche, ognuna ha come titolo un titolo di film, sono 14, dagli anni Cinquanta a oggi».
Ha scritto diverse fiabe originali e ne ha tradotto molte della tradizione classica. Un amore sconfinato per il mondo delle favole…
«Nella mia infanzia solitaria, erano i libri di fiabe i miei coinquilini, con loro mangiavo a tavola quello che la mamma mi aveva preparato al mattino, quando tornava dal lavoro dormivo già. (Il babbo adottivo l’ho perso a 4 anni, quello biologico l’ho conosciuto a 26 anni). Li ho ancora quasi tutti quei libri, alcuni sottolineati a seconda del gradimento. Dopo tanti anni, le fiabe hanno bussato anche alla mia penna, ero già mamma di Miryam. Uno dei primi titoli “La Bambina che mangiava i Lupi”. All’ultimo, di qualche mese fa, tengo molto, parla degli infelici bambini sui barconi del Mediterraneo, ma con delicatezza e con un lieto fine che spero un giorno potrà avverarsi. Il titolo è “Storia con mare, cielo e paura” (Salani)».
Sia nella società sia nella scuola, sembra che la poesia si stia relegando sempre più in una nicchia…
«Soprattutto gli insegnanti non fanno più studiare le poesie a memoria. Le pargolette mani, Le nonne Lucie, Eran trecento eran giovani e forti, Dagli atri muscosi dai fori cadenti, Il morbo infuria il pan ci manca, la sera nelle case “me la provi me la provi”, chiedevano i bambini a chiunque capitasse loro a tiro, finiva che i versi in casa li imparavano tutti e non li hanno mai più dimenticati. L’editore Piero Manni ne ha raccolte di bellissime in “Che dice la pioggerellina di marzo” e anch’io nell’antologia con l’editore Nicola Crocetti dal titolo “Bei cipressetti, cipressetti miei”. Vent’anni fa, con i miei studenti, di 15 o 16 anni, in classe leggevamo le poesie in coro, tutti insieme. La prima lettura non sempre li emozionava ma la ripetizione, varie volte, proprio come avviene con le canzoni, li catturava. Al liceo ho avuto ben due prof innamorati di poesia, il seme in un angolino io lo avevo già, ma la loro passione l’ha scaldato e maturato come un sole. Se chi insegna non la ama, il contagio non può avvenire».

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