Cosenza

Martedì 29 Aprile 2025

Se la mitezza vince sulla violenza cieca. "I giorni di vetro": parla Nicoletta Verna

C’è una scrittura che non si limita a narrare il mondo: lo incide, come un diamante sul vetro. È quella di Nicoletta Verna, autrice capace di trasformare la Storia in materiale pulsante, i silenzi in personaggi, le cicatrici in frasi che raccontano l’anima. A Cosenza Verna – già autrice del pluripremiato «Il valore affettivo» (Einaudi, 2021) – ha presentato il suo ultimo romanzo, «I giorni di Vetro», in un evento che ne ha celebrato la presenza nella Decina 2025 del Premio Sila, uno dei riconoscimenti più prestigiosi del panorama letterario italiano. «I giorni di Vetro» è un’opera che respira con i polmoni della letteratura pura: da una parte, la potenza epica di una saga familiare ambientata tra il delitto Matteotti e la Resistenza, dall’altra, la prosa levigata e tagliente che è diventata il suo marchio. Verna scolpisce le parole con la pazienza di un orafo – attenta alla musicalità del dialetto, alla sonorità delle pause, ai gesti che dicono più dei dialoghi – ma le scaglia contro il lettore come pietre. Perché Redenta, la protagonista nata sotto la “scarogna” del giorno in cui Mussolini consolidava il potere, non è un’eroina: è una donna con una gamba storpiata dalla polio e un cuore che rifiuta di indurirsi, neppure quando la violenza del gerarca Vetro, suo marito, trasforma il focolare domestico in campo di battaglia. La Verna non racconta il Ventennio: lo porta nei desideri repressi, nelle notti d’attesa di Iris, la partigiana che nasconde un segreto capace di cambiare tutto. La sua scrittura è un ponte sospeso tra documentario e lirismo: restituisce il graffio delle ingiustizie ma anche la tenerezza ostinata dei vinti, quelli che «credono nel domani non per ottimismo, ma per disperazione». Non stupisce, allora, che la sua esclusione dalla dodicina del Premio Strega 2025 abbia generato reazioni accese sia da parte dei lettori sia da critici letterari e addetti ai lavori. «I giorni di Vetro» è una storia intensa e coraggiosa ambientata in un periodo storico complesso… «Volevo raccontare una storia che fosse anche un’allegoria della violenza in tutte le sue forme. Così ho scelto un periodo storico che, anche dal punto di vista metaforico, aiutasse a capire cos’è stata la violenza, quali sono le conseguenze, e anche i modi con cui l’animo umano e il genere umano si oppongono. Donna umile e mite, Redenta è dotata anche di grande tenacia e alla fine riuscirà a far prevalere la mitezza sulla violenza cieca». Redenta incarna la speranza in un contesto di violenza e oppressione… «Redenta nasce in una giornata particolare, per citare il film di Ettore Scola. Nasce il 10 giugno 1924, il giorno dell’omicidio di Giacomo Matteotti, quindi già al momento della sua nascita incarna un destino di vittima della violenza. Matteotti fu una vittima politica della violenza fascista, Redenta è una vittima civile. Ma dal punto di vista simbolico, il concetto è simile. Quindi l’ho costruita tenendo presente l’equilibrio tra fragilità, oppressione, difficoltà nell’opporsi ma anche enorme forza d’animo e una pietas cristiana come unico modo per contrapporsi alla violenza e cercare di comprendere cos’è la giustizia». Come hai lavorato per mantenere un equilibrio tra realtà storica e narrazione letteraria? «Alla fine del romanzo ho scritto una nota per dire che non c'è niente di vero e non c'è niente di falso, che la vicenda è inventata. E ogni riga è ispirata, tratta, basata su fatti storici realmente accaduti. Ovviamente c’è un lavoro su un doppio binario da un lato, la grande Storia – la parte più facile, perché basta consultare le fonti – la parte complessa, ma anche più avvincente, è documentarsi sulla piccola realtà di un paesino di 2mila anime sugli appennini romagnoli degli anni 30. Lì c'è stato un lavoro anche su folklore e stati d’animo di quegli anni basato sulle testimonianze orali e su diari e piccole pubblicazioni locali che mi sono state di grande aiuto». Nel suo libro emerge una lingua ibridata dal dialetto romagnolo che richiama la tradizione di Elsa Morante e Tonino Guerra. Quanto è stata importante questa scelta stilistica? «È stata importantissima per diversi motivi. Per un una questione di mimesi, dovevo rendere il più possibile come parlava davvero una donna in quegli anni che non poteva essere un italiano pulito, colto ma ibridato col dialetto e semplice. Per una questione di musica, il dialetto è musicale. Mi piaceva l'armonia che veniva fuori dal pastiche tra italiano e romagnolo. Perché così fanno i romagnoli. E poi per creare un'atmosfera il più possibile aderente a quel pezzo di mondo». Il suo libro è stato proposto al Premio Strega da Elena Stancanelli e ha ricevuto grande apprezzamento da critici e lettori, vincendo anche il Premio Manzoni 2024. Come ha vissuto la notizia dell’esclusione dalla Dodicina? «Beh, quando si partecipa a un concorso, naturalmente se ne accettano in tutto e per tutto le regole. Quindi, ringrazio la giuria per il tempo che ha dedicato alla valutazione e alla lettura del mio romanzo e non entro nel merito delle loro decisioni, che sicuramente sono molto ben motivate e condivisibili. Molti colleghi e personalità del mondo letterario hanno espresso sostegno e sorpresa per la sua esclusione». Qual è il messaggio che vorrebbe rivolgere loro? «Di enorme gratitudine. Si scrive per il pubblico ancor prima che per i premi. Non mi aspettavo questa valanga vera e propria di affetto, e sono contenta che questa storia sia arrivata a così tante persone. Penso che la memoria collettiva resti un valore molto importante e l'affetto delle persone verso il libro lo dimostra».

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