Questo sito contribuisce all’audience di Quotidiano Nazionale

Quando è la natura a raccontare la Storia. Parla Paola Caridi, una delle tre vincitrici del Premio Sila

Le vicende del Medio Oriente insanguinato attraverso gli alberi, la terra, il non-umano che segna luoghi e confini

Nel cuore di un Medio Oriente attraversato da storie millenarie e da ferite ancora aperte, la voce di Paola Caridi risuona come quella di una narratrice capace di restituire dignità e profondità a ciò che spesso resta invisibile. L’abbiamo incontrata a Cosenza, dove con «Il gelso di Gerusalemme. L’altra storia raccontata dagli alberi» (Feltrinelli) ha vinto il Premio Sila 2025, sezione Economia e Società.

La XIII edizione del prestigioso e storico riconoscimento si è conclusa domenica con tre giorni di eventi culturali di altissimo profilo che hanno trasformato Cosenza e la Sila in un palcoscenico letterario straordinario. L’inaugurazione ha visto proprio la giornalista dialogare con lo storico dell’arte Tomaso Montanari, davanti a un pubblico numerosissimo, in un incontro che ha saputo coniugare riflessione culturale e impegno civile. La seconda giornata a Palazzo Arnone ha celebrato l’eccellenza femminile della letteratura contemporanea: dalla lectio magistralis di Nadia Fusini su Shakespeare e Cervantes alla cerimonia di premiazione condotta da Ritanna Armeni, che ha incoronato le tre vincitrici: Nicoletta Verna per la sezione Letteratura con «I giorni di Vetro» (Einaudi), la stessa Caridi, e Nadia Fusini insignita per la Carriera. Il gran finale a Camigliatello Silano ha visto la scrittrice Viola Ardone e lo scrittore e critico Emanuele Trevi confrontarsi sul tema «Tessere le storie», degna chiusura di una manifestazione che si è confermata la Calabria come terra di cultura capace di attrarre i grandi protagonisti della narrativa italiana.

Un legame particolare unisce Paola Caridi alla Calabria: suo padre era calabrese, «aveva lasciato questa terra a 17 anni, per fame, durante la seconda guerra mondiale», ha raccontato l’autrice. Col suo libro Caridi invita a guardare la storia del Medio Oriente da una prospettiva nuova e sorprendente: quella degli alberi, testimoni silenziosi di conflitti, migrazioni e rinascite. In un tempo in cui la cronaca sembra sopraffare la memoria, il suo sguardo cerca di scrivere una storia inedita sospesa tra la forza della natura, la terra, e la fragilità dell’uomo. Con Montanari il 24 maggio scorso Paola Caridi si è fatta promotrice dell’iniziativa «Un sudario per Gaza» per ricordare le vittime innocenti di quello che definiscono con chiarezza un genocidio, esempio concreto di come la cultura possa trasformarsi da pensiero in gesto tangibile di solidarietà…

Attraverso la prospettiva degli alberi, la storia del Medio Oriente appare meno schematica e più umana. Che cosa può insegnarci questo cambio di sguardo sulla comprensione dei conflitti e delle identità della regione?
«Può insegnarci molto, perché non cambia solo lo sguardo, cambia la cronologia. Cambia i confini che non esistono. Cambia il ruolo degli umani stessi, perché li si vede da un’altra prospettiva. E attraverso questo sguardo cambia, forse, anche una nostra idea di futuro».

Il suo libro intreccia memoria naturale e memoria storica. In che modo la narrazione della natura può aiutare a ricostruire la memoria collettiva di popoli segnati da guerre e migrazioni?
«Anzitutto il cambiamento è proprio nel racconto, nel senso che non è detto che ciò che noi sappiamo di un conflitto o di una crisi, di una questione come quella israelo-palestinese corrisponda alla realtà, a quello che è successo sulla terra. E la seconda cosa è che noi ci concentriamo sugli umani, sui popoli e sulle comunità, ma non sulla terra. Eppure quelle comunità, quei popoli, agiscono e vivono su quella terra di cui sappiamo pochissimo. Già questo è un cambiamento fondamentale di narrazione».

Assieme a Tomaso Montanari, ha promosso l’iniziativa del telo bianco per commemorare i 50mila morti di Gaza…
«Anzitutto è il simbolo del genocidio. E non lo dico io, non lo diciamo noi, cioè Tomaso Montanari, io e Micaela Frulli, Evelina Santangelo, Claudia Durastanti, Francesco Pallante, Giuseppe Mazza. Ma lo dicono, ad esempio, i fotografi e i cameraman palestinesi di Gaza che hanno fatto dei sudari il simbolo del genocidio. Quindi non è un’appropriazione nostra, non è una lettura nostra. Abbiamo solamente letto ciò che altri ci avevano detto e ci avevano descritto. E la reazione della comunità degli italiani è una narrazione in parte attesa. Avevamo colto quello che noi chiamiamo il sussurro. Questa necessità di dire basta, di dire non nel mio nome, di dire non è possibile accettare una enormità di questo tipo, ma non ci aspettavamo una reazione così corale. È proprio un coro, anche nel senso della tragedia greca. E questo coro è proprio come un tappeto sonoro che impone alla politica e ai decisori non solo di dire ma di fare, per non essere complici. Per non essere correi del genocidio».

La situazione di Gaza rappresenta oggi una delle più gravi crisi umanitarie del Mediterraneo. Qual è il ruolo che la narrazione – letteraria e giornalistica – può avere nel contrastare l’indifferenza e nel favorire una maggiore consapevolezza pubblica?
«Da parte dei cittadini non c’è indifferenza, c’è complicità di una parte della politica. Il ruolo fondamentale ce l’ha la narrazione artistica. Mettiamo tutto dentro l’arte: letteratura, musica. L’arte largamente intesa. Che va in profondità. Dove la cronaca si ferma. E non perché non ci siano giornalisti che raccontano Gaza: ne sono stati ammazzati almeno 225 palestinesi di Gaza e ci hanno mostrato il genocidio. L’arte, la letteratura cambia il paradigma che ci ha costretto dentro questi limiti e dentro questa cornice per troppi decenni. Non anni».

Oggi in edicola

Prima pagina

Caricamento commenti

Commenta la notizia