L’arte dice l’indicibile ed è un nostro dovere. Parla Tomaso Montanari, a Cosenza per il Premio Sila
Nel cuore del centro storico di Cosenza il Premio Sila 2025 si è fatto promotore di un dialogo di straordinaria intensità. Sospeso tra letteratura, Storia e impegno civile. I due protagonisti sono stati Paola Caridi, vincitrice del Premio Sila per la sezione Economia e Società con il libro «Il gelso di Gerusalemme. L’altra storia raccontata dagli alberi» (Feltrinelli), e Tomaso Montanari, storico dell’arte, accademico e membro della giuria del Sila. Assieme, i due intellettuali hanno intrecciato le voci della natura e della memoria, offrendo nuove prospettive sulla Storia e sulla cultura del Mediterraneo e del Medio Oriente, ma anche sull’urgenza di un impegno civile che non si limiti all’analisi, ma si traduca in gesti concreti, come la recente mobilitazione «Un sudario per Gaza», organizzata, tra gli altri, proprio da Caridi e Montanari. Al termine dell’incontro, ci siamo fermati con Tomaso Montanari per riflettere sul ruolo della cultura in tempi segnati da conflitti e crisi umanitarie. Da un genocidio che a Gaza sta mietendo un numero impressionante di vittime. Il Premio Sila è da sempre un luogo di dialogo tra letteratura e impegno civile. Che valore aggiunto può offrire la letteratura oggi nel raccontare la complessità del Mediterraneo e del Medio Oriente? «È una risorsa cruciale. Perché forse le parole della geopolitica, come si chiama oggi, non riescono a cogliere fino in fondo l’enormità epocale ed esistenziale di ciò che sta succedendo. La letteratura è un linguaggio altro che riesce a pronunciare l’indicibile. Così come l’arte, in tutte le sue forme. Dunque, di fronte a cose che non riusciamo a dire con le parole razionali, c’è. La letteratura in questo senso è più potente di ogni altra forma di espressione». Il suo impegno civile si è spesso intrecciato con la riflessione sul patrimonio artistico come bene comune. In che modo la tutela della memoria – artistica, storica o naturale – può diventare uno strumento di resistenza contro la violenza e la distruzione? «Direi nel modo più intimo, cioè facendoci diventare degli esseri umani. Perché il punto non è cambiare gli altri. Innanzitutto dobbiamo cambiare noi stessi. Non si nasce umani, si diventa faticosamente umani. È un percorso che dura tutta la vita. Poche cose sono in grado di far reagire ciò che sta nelle nostre profondità come il dialogo con quel concentrato di umanità altrui che chiamiamo opere d’arte, patrimonio culturale. È come se avessimo intorno a noi tutte coloro e tutti coloro che ci hanno preceduto. Allora arriviamo davvero all’idea gandhiana che se vuoi cambiare il mondo devi cambiare te stesso. Ma per farlo, lo spazio in cui viviamo non va solo conosciuto storicamente ma va amato, e ciò può davvero trasformarci in umani». Recentemente, assieme anche a Paola Caridi, ha promosso l’iniziativa “Un sudario per Gaza”, invitando a esporre teli bianchi per ricordare i 50mila morti palestinesi. Qual è stato il significato più profondo di questo gesto? E quale risposta ha ricevuto dalla società civile? «Non volevamo solo commemorare. Volevamo anche che parlassero loro e che parlassimo noi. Pensavamo ai vivi, oltre che ai morti. Agli ancora vivi. E non sappiamo per quanto tempo. Il nostro governo, come i governi occidentali, può fermare Israele. È un nostro alleato. Gli vendiamo le armi, gli passiamo le nostre conoscenze. Quei sudari erano un atto di accusa verso il nostro governo. Allora è un momento in cui proviamo insieme a piangere i morti, ma anche a salvare i vivi. Non che noi li possiamo salvare, ma possiamo pacificamente costringere chi ha la responsabilità democratica di un governo ad assumersi fino in fondo il compito che la Costituzione assegna loro». Di fronte alla tragedia umanitaria di Gaza, quanto le mobilitazioni simboliche possono incidere sul dibattito pubblico e sulle scelte politiche? Esiste il rischio che restino atti isolati di testimonianza? «Non credo. Mi pare che, ad esempio, ora si possa dire genocidio, e fino a poco tempo fa non si poteva. Chiamare le cose con il loro nome, seguire l’opinione della comunità scientifica e imporre questa verità anche ai media – governati da interessi spesso inconfessabili – e ai politici che resistono per la loro convenienza. Far capire che oggi il consenso nel Paese è dalla parte di Gaza, perché forse le cittadine e i cittadini di questo paese sono un po’ meglio della loro classe dirigente politica. Provare a farlo capire ha un significato non solo simbolico ma spero, operativo, altrimenti non saremo più una democrazia». Guardando al futuro, quali sono le responsabilità degli intellettuali e degli operatori culturali di fronte a crisi come quella di Gaza? «Credo che il silenzio sia complicità e che tacere, voltarsi dall’altra parte, provare a salvarsi da soli, sia avarizia. Diceva don Milani che salvarsi insieme è politica. Salvarsi con gli altri. Allora gli intellettuali sono innanzitutto persone e sono cittadini che hanno avuto il privilegio – lo considero tale – di potersi dedicare a quella parte della vita che si può chiamare contemplazione. Questo privilegio impone un dovere. Stare nella torre d’avorio implica anche sapere che è una torre di guardia e se si vedono pericoli all’orizzonte bisogna parlare. Credo sia questo il punto. Non tacere. Non rimanere in silenzio. Non teorizzare il disimpegno. Non pensare che la politica sia una cosa sporca, ma fare fino in fondo il proprio dovere, perché si tratta solo di questo».