Le femmine ribelli ci salveranno. A colloquio col cosentino Costabile sul suo film sorprendente
«Non avrei mai spettacolarizzato la ’ndrangheta, mi interessava molto di più entrare nei suoi meccanismi familiari, quelli che costituiscono la sua forza, ma che possono essere scardinati anche dall’interno, a cominciare dalle femmine ribelli cui è dedicato il mio film». Francesco Costabile, 41 anni, il regista cosentino alla sua opera prima, è soddisfatto dell’accoglienza che il film “Una femmina” ha ottenuto nella sezione Panorama del Festival di Berlino. Girata interamente a Verbicaro e dintorni, nel Parco del Pollino, l’opera è tratta dal romanzo “Fimmine ribelli. Come le donne salveranno il Paese dalla ’ndrangheta” (Rizzoli, 2013) del giornalista palermitano Lirio Abbate. Il cast è interamente composto da attori calabresi e siciliani, tutti bravissimi nel senso pieno dell’aggettivo. La protagonista è l’esordiente Lina Siciliano (nata a Cariati), gli altri sono Fabrizio Ferracane (Mazara del Vallo), Anna Maria De Luca (Spezzano Albanese), Simona Malato (Erice), Luca Massaro (Messina), Mario Russo (Crotone), Vincenzo Di Rosa (Vibo Valentia) e Francesca Ritrovato (Catanzaro). Un film da vedere, che entra dritto nelle emozioni più intime e che colpisce per la sua qualità complessiva molto alta, nonostante sia stato girato in sole cinque settimane. Costabile, lei racconta la ’ndrangheta partendo dagli archetipi, come faceva la tragedia greca. «Sì, è così e direi anche archetipi psichici oltre che drammaturgici. Il materiale del libro di Abbate è denso, consente la ricerca dell’approfondimento del reale, ma poi si va oltre. Calabria sì, ma anche l’idea di fare risuonare le coscienze ovunque». Quindi ’ndrangheta ma anche oltre? «Ho cercato di focalizzare un nucleo universale, di raccontare una ribellione che nasce da un evento traumatico rimosso. Rosa, la protagonista, si aggancia al suo inconscio e questo può essere anche un viaggio per lo spettatore verso il ritrovamento di qualcosa di sé. La catarsi sta nella frattura di quella società, lei affonda nell’ombra per trovare la luce alla fine». Lei esalta questo percorso con un uso prolungato e magistrale dei primi piani. «Amo gli attori, mi appassionano le loro facce e i loro sguardi. Gli occhi sono fondamentali per esprimere emozione ed empatia. Il primo piano racconta come Rosa scava nel proprio vissuto. Berta, la nonna, parla con le labbra, pur tenendo la bocca chiusa (Anna Maria De Luca è di una bravura straordinaria, nda). C’è una sorta di trasfigurazione iperrealista. Ho pensato anche a Pasolini, su cui ho girato un documentario. Però, lo confesso, mi sarebbe piaciuto fare qualche esterno in più, qualche campo più largo. Non si poteva, non c’era il tempo, abbiamo girato l’essenziale». Già, in 5 settimane ha realizzato un film straordinario… Come ha fatto? «C’era stata una lunga e maniacale preparazione. Dopo tanti sopralluoghi avevo scelto Verbicaro come set, soprattutto per i suoi vicoli e le sue scale, un paese la cui struttura mi ricorda le incisioni di Escher». Pure le scelte formali sono di alta qualità. «Sì, nel senso che scavare più a fondo nel reale serve l’immaginario. Così si crea un’onda emotiva intensa, che lo spettatore si porta via addosso». Penso ai toni costantemente scuri adottati nella fotografia, anche all’esterno il cielo è sempre nuvoloso... «Sì, è stata una precisa scelta narrativa. La luce è la conquista finale di Rosa. Abbiamo girato fra aprile e maggio e il sole calabrese era splendente, lo abbiamo nascosto. Avrei preferito fare le riprese in inverno. Il direttore della fotografia, Giuseppe Maio, è stato fondamentale». Per essere un esordiente, ha dimostrato sicurezza nelle scelte e qualità nel prodotto. «Ho fatto tanta gavetta. Ho scritto sceneggiature, ho diretto documentari premiati, ho collaborato con Amelio. Sono arrivato al lungometraggio con un background importante». E la scelta di una protagonista esordiente è stata particolare. «Volevo una ragazza che, come Rosa, avesse vissuto situazioni difficili. Ho cercato nei paesini dell’entroterra e poi nelle case famiglia. E in una di queste, a Cosenza, ho trovato Lina, che era insieme con due sorelle, passata da situazioni traumatiche: nel film si è rivelata perfetta». La rottura degli schemi operata da Rosa è, in qualche modo, anche la sua, nel campo della sessualità? «Io non sono conforme, non rientro negli stereotipi di genere. Non è stato facile liberarmi dalla cultura maschilista, da ragazzo ho subìto anche il bullismo, da chi non era capace di accettare i miei capelli lunghi, i colori stravaganti del mio abbigliamento. Era la Cosenza di trent’anni fa. Adesso vivo la mia indipendenza, in me convivono maschile e femminile. Jung, per esempio, dice proprio questo, non c’è separazione tra le due parti. In qualche modo il film è legato anche al mio percorso di emancipazione. Io sono stato più fortunato, la mia famiglia ha manifestato resistenze, ma mi ha fatto sentire sempre il suo amore. Oggi sono fieri di me e io sono felice di aver girato il mio primo lungometraggio in Calabria. E devo dire un’altra cosa: in questa regione ci sono attori bravissimi. De Luca, Russo, Di Rosa, Ritrovato sono tutte eccellenze. Per lavorare sono costretti ad andare fuori, invece le occasioni si devono creare anche qui. Ed è possibile. Io sono grato alla Calabria Film Commission che ha concesso il finanziamento a “Una femmina” quando era presidente Pino Citrigno e lo ha confermato quando era commissario Giovanni Minoli. Un’istituzione che ha aiutato molti registi calabresi. Questa è la strada giusta». Anche perché la Calabria merita crescente attenzione. «È una regione dalle grandi potenzialità, che per colpa della ’ndrangheta è rimasta in uno stato di isolamento. Ci sono qualità paesaggistiche, antropologiche, culturali, tutte da rilanciare. La struttura familiare è stata usata per il male, ma i clan si sono sfaldati proprio per la ribellione delle donne. Del resto, la natura è indubitabilmente femmina. Come Rosa».