Il Dna... dimenticato. È la traccia genetica lasciata da uno degli assassini di Roberta Lanzino, stuprata e uccisa, il 26 luglio del 1988 lungo la strada che da San Fili conduce a Falconara Albanese. Una traccia biologica determinante, il solo possibile elemento organico identificativo ritrovato per caso, ventisette anni dopo il delitto, nel polveroso ufficio “corpi di reato” del palazzo di giustizia di Cosenza. Un dna tuttavia non attribuito ad alcuno ma servito a Franco Sansone, imprenditore di Cerisano, originariamente imputato del delitto per ottenere l’assoluzione in via definitiva. Nell’ultimo processo istruito dalla procura di Paola per far luce sulla uccisione della studentessa di Rende, Sansone, già condannato in precedenza per due omicidi, veniva indicato insieme con l’allevatore di Marano, Luigi Carbone (nel frattempo scomparso per lupara bianca), come l’esecutore materiale della violenza sessuale e dell’omicidio. A scagionarlo è stato proprio l’esame comparativo eseguito tra il suo profilo di Dna e quello estratto da un pugno d’argilla repertato sotto la testa della vittima. Leggi l'articolo completo sull'edizione cartacea di Gazzetta del Sud - Cosenza