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Di Meroni ce n'è uno solo. Anzi, due. Guarascio come Giovanni Tocci e Tania Cagnotto

Si narra che Gigi Meroni, il George Best italiano degli anni '60, portasse a spasso col guinzaglio una gallina per le strade di Torino. Più di una narrazione (come tale intrisa di fantasia), in effetti, perché la celebre ala destra del Torino per le strade del capoluogo piemontese, a spasso con la regina dei polli, ci andava veramente. Nessuna leggenda. Ma di certo le escursioni fuori dal comune non sono le uniche immagini degne di nota del campionissimo che ha incantato il calcio italiano di quell'epoca. La popolarità di Meroni fu interrotta solo da un drammatico incidente stradale, ma la sua fama galoppa ancora oggi, proprio come il numero 7 faceva sulla fascia.

L'altro Meroni

L'altro Meroni, il giocatore di questa storia (a tinte rossoblù), si chiama Andrea, non vive a Torino e - di sicuro - non ama passeggiare con le galline al guinzaglio (fino a prova contraria). A voler fare una battuta - perché pur sempre di un gioco si tratta - preferisce portare a spasso... le rondinelle. Questo Meroni, decisamente meno popolare e meno sui generis, incarna alla perfezione il prototipo del professionista silenzioso, mai sopra le righe, umile gregario. Un uomo normalissimo che, negli ultimi mesi, ha indossato la tutina di supereroe. Una metamorfosi - che ha alimentato partita dopo partita, clean sheet dopo clean sheet - le speranze salvezza del Cosenza. Un muro, con pochissime crepe. Ma nel calcio contano i risultati: una retrocessione avrebbe vanificato tutto, o quasi. Perché degli sconfitti non si ricorda nessuno, neanche chi gli vuole bene. E allora è salito in cattedra (e in cielo) quando svolazzava l'ultima palla giocabile (prima del delirio dei tifosi di casa) e ha punito il Brescia salvando i “lupi”. E non ci meraviglieremmo, un giorno, di vederlo a passeggio per le strade di Cosenza, come il suo illustre omonimo faceva a Torino. Magari, però, con un lupo vero al guinzaglio.

Guarascio e il coefficiente di difficoltà

Raramente, nel calcio, si detesta chi raggiunge l'obiettivo. È il caso del presidente del Cosenza, Eugenio Guarascio, contestatissimo dal pubblico di fede rossoblù che gli ha rivolto più di qualche “pensiero” prima, durante e dopo la partita dei silani. Sia a Brescia che a piazza Bilotti, dove è andata in scena la festa bicolore. E questo perché non è tanto il cosa (la permanenza in categoria) ma è il come si centra l'obiettivo prefissato. L'ennesima agonia con sprint finale e salvezza conquistata all'ultima preghiera. Il tifo organizzato lo ha scaricato da tempo, ma anche gran parte dei sostenitori sono stanchi di viaggiare a scartamento ridotto. Come se non bastasse, ogni anno si fa sempre più dura: salvezza miracolosa nell'anno della pandemia dopo aver navigato per mesi in acque tremende; salvezza conquistata da quint'ultima (giocando la gara di ritorno dei playout davanti al pubblico amico); salvezza conquistata al termine dell'ultimo campionato da quart'ultima (giocando la gara di ritorno davanti al pubblico “nemico” - è il caso di dirlo). Sempre più difficile. Come quei tuffatori che, in fiducia, scelgono di salire di livello e abbandonano i trampolini più prossimi all'acqua, aumentando il coefficiente di difficoltà. “Aggiungiamo pure un altro carpiato e, giacché ci siamo, un salto mortale”. Come se fosse la Tania Cagnotto dei bei tempi o il cosentino Giovanni Tocci. Peccato che, al di là della piscina, c'è un pubblico che vorrebbe vedere altro. E che si accontenterebbe di una bella nuotata in controllo piuttosto che soffrire... di gioia.

 

 

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