Aspettavano la “preda” fiutata nell’area dello Stretto e seguita come un’ombra per ordine della Procura antimafia di Reggio Calabria. Sapevano che un romano stava
trasferendo dalla Calabria al Lazio un carico importante per ordine dei boss della ‘ndrangheta. E così lo hanno atteso e quando è sbucato alla guida della sua auto, l’hanno bloccato. Doveva sembrare un controllo normale, come aveva chiesto il colonnello Giosuè Colella. E come una verifica di routine è cominciata: «Documenti,
prego...». Nicola Madia è sbiancato, ha cominciato a sudare freddo facendo trasparire fin troppo la sua angoscia da incensurato. I finanzieri hanno capito che era l’uomo giusto e hanno cominciato a frugare tra i bagagli. Da un borsone hanno tirato fuori quello che cercavano, un ordigno attivabile a distanza. Una bomba capace di seminare
la distruzione composta da un contenitore cilindrico di colore bianco della capacità di 30 litri sul cui tappo erano ben visibili un dispositivo di accensione, posizionato
sullo zero, e un’antenna fissata col silicone. L’ordigno era composto di 16 bombolette di gas gpl da campeggio piene, circa 850 grammi di tritolo, varie biglie d’acciaio, per un peso di circa 3 chilogrammi, e una batteria da motociclo, collegata a un congegno di attivazione via radio. I successivi accertamenti, effettuati con l’ausilio delle unità speciali degli artificieri antisabotaggio del Genio guastatori dell’Esercito, di stanza a Castrovillari, e degli esperti dell’antiterrorismo della Questura di Cosenza, hanno permesso di accertare che si trattava di un ordigno esplosivo definito di «buona potenzialità» e «micidialità», in grado di essere utilizzato a
distanza. Madia ha provato a giustificarsi:
«Quel borsone non è
mio, mi è stato solo chiesto di portarlo
a Roma... L’ho fatto per soldi,
senza chiederne il contenuto. Io
quella gente non l’avevo mai vista
prima...». Spiegazioni che, probabilmente,
ribadirà anche stamattina
davanti al gipnell’udienza per
la convalida dell’arresto chiesta
dal pm Maria Sofia Cozza e dal
procuratore Franco Giacomantonio
prima di spedire le carte ai magistrati
dell’antimafia reggina.
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