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Deportato in Germania per 2 anni, eredi chiedono i danni alla Merkel

                                                                                                 di Arcangelo Badolati

 L’inferno in terra. Vissuto dai prigionieri italiani finiti nelle grinfie dei carcerieri tedeschi durante l’ultimo conflitto mondiale. Una pagina oscura e dimenticata. Tanti soldati del Regio esercito vennero infatti imprigionati dagli ex alleati germanici dopo la firma dell’armistizio siglato dal re savoiardo Vittorio Emanuele con gli ex “nemici” americani e inglesi. L’armistizio espose i nostri soldati alle ritorsioni tedesche. Ufficiali, sottufficiali e truppa, rimasti improvvisamente senza ordini e catena di comando, vennero catturati dagli uomini del Fuhrer e spediti in quelli che Primo Levi chiamò «I luoghi dell’inumano orrore». Questa sventurata sorte toccò anche a molti calabresi colpevoli solo d’essere in armi per la loro Patria in quel preciso momento storico. Alcuni riuscirono alla fine della guerra a tornare a casa, di altri non si seppe più nulla. Davanti al Tribunale di Cosenza è fissata per il prossimo 26 maggio (giudice Carmen Misasi) la causa per risarcimento del danno intentata contro la Repubblica Federale di Germania dagli eredi d’un sergente maggiore cosentino, Domenico Bove, fatto prigioniero dall’esercito tedesco il 22 settembre 1943. L’uo - mo venne deportato in Germania per essere adibito ai lavori forzati nel Campo di Concentramento di Essen, succursale di quello di Buchenwald. La deportazione avvenne su carri bestiame, in ognuno dei quali si trovavano circa 80 persone e durò quattro giorni e tre notti, senza cibo e con scarse razioni di acqua. Il campo di concentramento, ove si trovavano circa 28.000 internati, non solo italiani, è rimasto famoso per i lavori massacranti che i prigionieri dovevano sopportare sia nelle miniere di carbone, profonde fino a 2.200 metri, che all’esterno per le operazioni di trasporto del carbone. La città di Essen era un importante centro industriale collegato alle famose industrie siderurgiche di proprietà della famiglia Krupp, ove si costruivano le armi da guerra per il regime nazista. Spesso accadeva che gruppi di internati, venissero incolonnati per recarsi a piedi nei campi di lavoro che distavano anche alcuni chilometri dal campo di prigionia. Marciavano in silenzio, a dieci gradi sotto lo zero, con solo una tuta addosso. Proprio come accadde al sergente maggiore Domenico Bove. I prigionieri dormivano in baracche di legno su “letti” a castello a cinque livelli, nutrendosi quotidianamente d’un tozzo di pane ed una brodaglia a base di verdure. Le condizioni igieniche erano inenarrabili, non esistendo l’acqua calda ed il sapone, per cui solo d’estate era possibile lavarsi. Durante il resto dell’anno gli internati venivano fatti spogliare e poi cosparsi di insetticidi. Ciò andò avanti fino al 25 maggio 1945, quando Domenico Bove venne liberato dagli Alleati. Il sottufficiale calabrese, il cui peso si era ridotto a 42 chilogrammi! venne dunque mantenuto per due anni in condizioni di sostanziale schiavitù, privo dello status di prigioniero di guerra, e delle relative garanzie assicurate dalla Convenzione di Ginevra. Per i suoi eredi, rappresentati in giudizio dagli avvocati Antonio ed Elvira Bove, il sergente maggiore subì dallo Stato Tedesco gravi ed inenarrabili sofferenze, la cui responsabilità politica e morale ricade oggi sulla Repubblica Federale di Germania. Ora, a distanza di circa 70 anni, dovrà essere un tribunale italiano a stabilire la misura del risarcimento dei danni, sia di natura patrimoniale che extrapatrimoniale, che la Repubblica Federale dovrà versare ai congiunti-eredi del sottufficiale calabrese. Bove fu infatti costretto alla deportazione che è considerato un crimine di guerra contro l’umanità e, come tale, imprescrittibile in base alle norme del diritto internazionale. In processo dovrà costituirsi il cancelliere federale pro-tempore Angela Merkel.

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