Un antico patto criminale regola il commercio del pesce a Cosenza e dintorni. Un’alleanza mai messa in discussione. Perché ad aver siglato quell’accordo sono stati da un lato il boss Franco Muto, il “re del pesce” di Cetraro, e dall’altro Ettore “Ettaruzzo” Lanzino, l’ex primula della ’ndrangheta bruzia.
È questa una delle tante rivelazioni contenute nelle carte di “Frontiera”, la maxi-operazione anti ’ndrangheta scattata due giorni fa contro il potente clan tirrenico dei Muto. A parlare di questo patto sono alcuni collaboratori di giustizia cosentini, su tutti Adolfo Foggetti e Daniele Lamanna. Foggetti fa i nomi di chi si occupava di distribuire nei diversi territori della provincia il pescato gestito in monopolio da Franco Muto, dominio che nessuno osava intaccare. L’unico a provarci sarebbe stato un imprenditore di Corigliano, sfoderando pure prezzi concorrenziali. Ma tutti hanno rispedito la vantaggiosa offerta al mittente. Su Paola, secondo il pentito, il referente era ad esempio Alfredo Palermo, anche lui finito in carcere martedì scorso. A Cosenza e Rende, invece, questo compito sarebbe toccato ai Di Puppo, famiglia storicamente vicina proprio ad “Ettaruzzo” Lanzino. Lamanna aggiunge altri particolari. Come la convocazione ricevuta da Franco Muto insieme a Rinaldo Gentile, altro storico esponente della ’ndrangheta cosentina. Muto si sarebbe in quell’occasione lamentato dei mancati pagamenti delle forniture da parte di svariati commercianti del capoluogo, invitando i suoi interlocutori a far rispettare i patti. Una versione, questa, che secondo la Direzione distrettuale antimafia conferma l’ossessivo controllo del boss di quel settore economico. Un comparto gestito attraverso l’azienda di famiglia, la Eurofish, governata sempre da Muto nonostante il provvedimento di confisca. Un potere schiacciante, rafforzato anche dalla decisione – di questo ne parla un altro pentito bruzio, Giuseppe Montemurro – di far aprire svariate pescherie intestate ai dipendenti della ditta cetrarese.
Eppure ai Muto non sarebbe mancata occasione di recuperare i crediti in autonomia, sfoggiando la forza intimidatoria che solo il nome del clan suscitava negli esercenti. Esemplare è la vicenda di un imprenditore cosentino, titolare tra le varie attività di un ristorante in quel di Diamante. L’uomo viene contattato telefonicamente da un dipendente della Eurofish che, senza troppi giri di parole, lo informava di pagare al più presto il suo debito. Evidentemente intimidito, l’esercente chiede comprensione e perdono a ripetizione, lamentando di vivere un momento particolarmente difficile. Dall’altro lato della cornetta – con i carabinieri del Ros intenti a intercettare ogni singolo sospiro di quella chiamata – le rassicurazioni fornite sanno di ulteriore minaccia. Passano solo quattro giorni e l’imprenditore contatta a sua volta la Eurofish, sostenendo di aver iniziato a saldare il suo debito e chiedendo ancora una volta scusa per l’accaduto.
Accanto a Franco Muto, oltre al genero Andrea Orsino e Piermatteo Forestiero, c’è poi il figlio Luigi. Sono sempre i pentiti a raccontare che, una volta scarcerato Luigi, il padre ormai avanti con l’età decide di passargli la sua dote mafiosa, cioè quella suprema di “diritto e medaglione”, carica riservata a pochissimi esponenti della ’ndrangheta. Il “re del pesce” sarà comunque avanti con l’età e alle prese con qualche acciacco, ma nelle varie intercettazioni tutti gli riconoscono una pronunciata astuzia e una capacità di adattamento rara. Non a caso, durante l’ultimo periodo di detenzione, Franco Muto non ha colloqui coi suoi familiari. E una volta uscito dal carcere di Terni, sale direttamente su un taxi. Anche durante il viaggio le precauzioni non sono mai troppe: chiede in prestito il cellulare al tassista per poter telefonare a casa. Chi gli risponde quasi non ci crede che abbia deciso di rientrare in quel modo. E commenta tra le risate l’ultima trovata del boss.
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