Il giudice inflessibile e il “rampollo” pentito. Bruno Caccia, procuratore della Repubblica di Torino, venne assassinato da due killer la sera del 26 giugno 1983. Era sceso in strada per portare a spasso il cane. Girava senza scorta volentieri nonostante gliel’avessero assegnata. Nel Piemonte di quegli anni lontani, scosso dal terrorismo rosso, la ’ndrangheta aveva messo piede e già costruito le fortune economiche di piccoli e grandi boss. I calabresi avevano via via scalzato i “catanesi” di Jimmy Miano (poi diventato collaboratore di giustizia) e allestito una rete di contatti istituzionali diabolica. Quattro magistrati mantenevano infatti rapporti stabili con esponenti della criminalità organizzata nostrana garantendo “interventi”, “aggiustamenti” e impunità. La rettitudine, l’attenzione costante riservata ad ogni fascicolo, l’inavvicinabilità, la devozione verso lo Stato e l’acume professionale di Bruno Caccia stavano bloccando il “meccanismo” messo in piedi dai mafiosi calabresi. Quel giudice lontano dalla mondanità torinese, schivo e severo, era un problema che rischiava di compromettere tutto. Per questo ne venne decretata la condanna a morte. Fu Domenico Belfiore, detto “Mimmo”, capo dell’omonima famiglia orginaria di Gioiosa Ionica, a ordinarne l’eliminazione. Dopo il delitto, autori e mandante tentarono di accreditare – attraverso false rivendicazioni – la pista terroristica. Le brigate Rosse ed i Nuclei armati proletari con quel crimine, però, non c’entravano. Belfiore venne smascherato mandato a giudizio e poi condannato, nel 1989, con sentenza definitiva. Ignoti rimasero, tuttavia, gli esecutori materiali del crimine. Fino allo scorso anno quando la polizia, attraverso uno stratagemma investigativo degno d’un romanzo giallo di George Simenon, ha incriminato per il delitto Rocco Schirripa, 64 anni, panettiere di origine calabrese. A chiederne e ottenerne successivamente l’arresto è stato il pm antimafia di Milano Marcello Tatangelo. L’istruttoria processuale, a causa di alcuni vizi di nullità che ne hanno rallentato l’iter, è ancora in corso. Ma se Schirripa è indicato dalla Dda meneghina come il presunto assassino di Caccia chi era il suo complice? Il pentimento d’un “rampollo” della famiglia Agresta-Marando di Platì ben radicata da decenni in Piemonte, sembra destinato ad offrire importanti spunti d’indagine. Domenico Agresta, 28 anni, già condannato con sentenza definitiva per un omicidio, ha rivelato nel novembre scorso il nome del secondo presunto sicario del magistrato. I verbali con le sue dichiarazioni sono pubblici mentre l’identità dell’ipotizzato assassino è coperta da “omissis”. Agresta rivela d’aver appreso tutto in carcere da tre persone diverse. Una di queste è il padre, Saverio, che gli disse: «Sono stati Schirripa e (...) a farsi il procuratore di Torino. Questi sparavano che manco i cani...».
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